L'impianto nucleare di Chernobyl dopo l'incidente dell'86

Il processo non si farà. La Corte d’appello di Parigi ha deciso il “non luogo a procedere” contro Pierre Pellerin, nel lontano 1986 responsabile del servizio nazionale francese per la protezione contro le irradiazioni nucleari. Finito sul banco degli imputati perché accusato di aver consapevolmente sminuito le conseguenze della nube tossica provocata dal disastro di Chernobyl sulla Francia, senza prendere le necessarie precauzioni. Per quest’anziano signore di 88 anni, dopo dieci anni di istruttoria, il processo è sfumato. Rimangono le polemiche. Che si alimentano. Nonostante la vicenda risalga al lontano 1986.

Al disastro di Chernobyl. La notte fra il 25 e il 26 aprile del 1986 il reattore numero 4 della centrale nucleare esplose. Si formò una nube radioattiva, che iniziò a spostarsi verso Ovest. E, accompagnato dalle drammatiche notizie, avanzò verso l’Europa portando con se il panico. Dalla Svezia fino alla Grecia. Tutti i paesi intervennero, tranne la Francia, già allora grande potenza nucleare. Nessun problema, nessun rischio: “La nube si è fermata alla frontiera”, assicuravano le autorità. Mentre gli altri Paesi prendevano diverse precauzioni: pure in Italia, venne introdotto il divieto di bere latte e di consumare verdura. In Francia, invece, nulla. Come se niente fosse.

Ma nel 2001 un gruppo di malati di cancro alla tiroide prese l’iniziativa: 53 persone, che si ritenevano vittime di quella nube, fecero ricorso accusando le autorità di aver gestito con leggerezza la crisi. Inizialmente contro ignoti. Ma poi, dopo le prime inchieste, il giudice istruttore incaricato del caso mise espressamente sotto accusa il professor Pellerin. Dopo anni di inchieste e controinchieste, condite da svariate polemiche,  la Corte d’appello parigina ha deciso mercoledì sera che il processo non si farà.

Secondo i magistrati non è possibile dimostrare un “nesso di casualità” fra Chernobyl e l’aumento del numero di persone affette da malattie alla tiroide, registrato in seguito, soprattutto in Corsica, dove il transito della nube di Chernobyl è ormai innegabile. E dove in particolare i pastori continuarono a consumare formaggio di capra e latte irradiati.

Adesso resta solo la possibilità di un ricorso in Cassazione, ma con scarse chance di successo. Eva Joly, candidata dei Verdi alle presidenziali del prossimo anno, parla di “uno Stato al dì sopra delle leggi”. Il suo collega di partito Noel Mamère sottolinea che “la decisione della Corte d’appello dimostra la forza della lobby nucleare nel nostro Paese”. Ma le critiche non giungono solo dagli ambientalisti. Jean-Claude Zerbib, ingegnere specialista in radioprotezione, lavorava allora al Csa, il potente Commissariato all’energia atomica. Dalla Corsica venne contattato da un medico generalista, Dennis Fauconnier, preoccupato per il pericolo di contaminazione fra i suoi pazienti (proprio lui iniziò una crociata contro le autorità pubbliche). “Mi inviò nel giugno dell’86 un litro di latte di pecora – ha ricordato a Le Figaro, nei giorni scorsi, Zerbib -. E, nonostante fosse passato già del tempo, analizzandolo vidi che vi era una forte presenza di iodio 31 e un’attività nucleare pari a 150 becquerel, ancora elevata”. L’ingegnere comunicò a chi di dovere l’allarmante scoperta. Ma non successe nulla. Oggi commenta cosi’ la sentenza: “Non è stata fatta giustizia. Pierre Pellerin ha autentiche responsabilità nella non informazione della Francia all’epoca”.

Il professore apparve in tv il 29 aprile, in diretta al telegiornale delle 13 del canale pubblico Antenne2, per rassicurare i francesi. Sottolineò, sicuro di sé, che «il fatto non minaccia nessuno, a parte forse qualcuno nelle vicinanze della centrale di Chernobyl. E ancora, non ne sono sicuro». Lo stesso giorno, sulla medesima tv, quando una sorridente Brigitte Simonetta illustrò le previsioni metereologiche, sulla carta della Francia alla frontiera Est era impresso un enorme “Stop”, per sottolineare che la nube si era miracolosamente fermata lì, grazie all’anticiclone delle Azzorre. Ma il problema maggiore è che il dipartimento di Pellerin (Scpri, il Servizio centrale di protezione contro i raggi irradianti) insistette sullo stesso tono anche in seguito: sminuire e ancora sminuire. Quando nel giugno ’86 si rilevarono nel timo delle Alpi marittime dosi di cesio quattro volte superiori alla normale, la risposta scritta del Scpri fu che “non si bevono le infusioni di timo nella stessa quantità del latte: non ci sono problemi”. E in ottobre, quando i coltivatori della Drome posero il problema del foraggio contaminato, il consiglio fu di “mescolare quello irradiato con quello che non lo è”, così da ridurre gli effetti nocivi. E festa finita.

Ma l’Istituto nazionale di vigilanza sanitaria (organismo pubblico), in uno studio concluso nel 2006 in collaborazione con quello di protezione e sicurezza nucleare, ha stimato fra i 7 e i 55 i casi di cancro alla tiroide da imputare a Chernobyl nelle sole Alpi marittime francesi. Un altro rapporto d’esperti, presentato nell’agosto scorso, ha evidenziato un forte aumento dei problemi alla tiroide nella popolazione corsa a partire dal 1986. Nuove inchieste sono in corso al riguardo. Ma, per il momento, la giustizia francese insiste: 25 anni fa la nube di Chernobyl si fermò alla frontiera.

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