A parte chi è impeganto a organizzare festini targati Tarantini, i governanti di mezzo mondo ormai hanno capito che ad aspettarli sono tempi duri, e che bisogna attrezzarsi. L’ultimo in ordine cronologico è stato David Cameron, che dopo la rivolta invece di cercare di spiegarne le cause, non ha trovato di meglio che proporre la censura dei social network quando non si comportano come vuole lui, o come vuole la regina. God Save the Queen, e tappi la bocca ai rivoltosi!

Il primo tentativo di censura globale che mi ricordi risale al 2004. Indymedia si era diffusa come una metastasi, e sui suoi server girava materiale scottante, a partire da quello del legal forum di Genova. Ecco così che un bel giorno, nella civilissima Inghilterra, la polizia fa un bel raid e sequestra tutti i server. Cosa c’avranno gli inglesi da indagare su Indymedia? Niente, l’ordine arrivava dagli Usa. E cosa c’avranno gli Usa da indagare su Indymedia? Niente, l’ordine arrivava dalla Svizzera e dall’Italia. Che fine hanno fatto quelle indagini? Un buco nell’acqua, che però nel frattempo ha permesso alle forze di polizia di spiare dal buco della serratura di milioni di utenti, e magari all’accusa di venire a conoscenza delle strategie del legal forum, annientando i diritti della difesa.

E siccome quelli del legal forum sono sfigati, pochi mesi dopo gliene capita un’altra. Questa volta le informazioni sono sui server del collettivo Autistici/inventati presso la server farm di Aruba, in Toscana. A un certo punto salta tutto: “Problemi tecnici” si giustificano da Aruba. Cose che capitano. Un anno dopo la magistratura chiede al collettivo i registri relativi a una casella postale che usa un suo server. I ragazzi si informano sulle indagini e scoprono per caso che un anno prima non c’era stato nessun problema tecnico: la polizia aveva sequestrato i server e aveva copiato tutti i dati con la complicità di Aruba e senza che nessun altro ne sapesse niente. Un’operazione che potenzialmente ha messo la polizia nelle condizioni di spiare dalla serratura qualche decina di migliaia di soggetti, tra cui appunto il legal forum. Si tratta evidentemente di un abuso, ma i collettivi i quattrini per fare cause a destra e manca non ne hanno, e quindi si continua a vivacchiare così.

Visto che l’Italia non è un paese per internauti, il collettivo decide a questo punto di trasferire i suoi server in un posto più democratico. Cosa c’è di meglio della Norvegia? Peccato che un paio di anni dopo, dall’Italia parte una rogatoria in seguito a indagini nate dopo una denuncia di quei simpaticoni di Casa Pound. Il testo della rogatoria è una chicca imperdibile. Volevano i registri della mail orsa@canaglie.net, ma visto che la richiesta era in inglese hanno pensato di tradurre in inglese anche l’indirizzo mail, che così è diventato she-bear@scoundrel.net. Geniali. Il brutto è che nella civilissima Norvegia gli hanno comunque dato retta, e i dati dei server di autistici sono stati copiati un’altra volta. La storia quindi si ripete, con la scusa di recuperare dati relativi a una mail si spia in casa di migliaia di utenti. La differenza con l’Italia è che in Norvegia si sono in…, anche l’associazione delle aziende di informatica. La polizia ha risposto che operare così gli fa risparmiare tempo, e i giornali titolavano: “7000 persone spiate illegittimamente, per fare prima”.

Il sistema così com’è comunque è piuttosto farraginoso: per far chiudere un sito, far ritirare del materiale, spiare mail e altre belle iniziative contro i diritti fondamentali degli utenti, devi passare dalla magistratura, coinvolgere le forze di polizia, insomma, un lavoraccio. Ecco perché da 10 anni ormai si cerca il modo di semplificare la vita al censore globale. Il cavallo di troia è la tutela del diritto d’autore. Con la scusa di tutelare il business di un settore che così com’è ormai sopravvive solo grazie all’accanimento terapeutico delle gerontocrazie euro-americane (il nuovo commissario straordinario della Siaes ha 90 anni suonati), in realtà si fa il rodaggio del grande fratello. L’avanguardia nel settore è la Francia, dove le major dei diritti d’autore hanno conquistato un posto in prima fila nel palazzo. È il posto occupato da Janelly Fourtou, europarlamentare di spicco e moglie di Jean-Renè Fourtou, Ceo di Vivendi Universal. Amici fraterni di Sarkò, l’hanno convinto a varare in Francia una legge che poi è stata dichiarata incostituzionale, mentre in Europa hanno lottato fino alla fine perché nel famigerato Pacchetto Telecom non venisse sancito che Internet è un diritto, e che per negarmi un diritto ci vuole la decisione di un giudice, non la segnalazione di un passante.

Così come in Italia col regolamento che sta varando l’indipendentissima Agcom (quella dove lavorava quell’Innocenzi che si faceva suggerire al telefono dal Berlusca come fare per chiudere Annozero, e dove poi a sostituirlo è arrivato Martuscello, ex dipendente di Publitalia) il tentativo è quello di dare a soggetti facilmente manovrabili al soldo del potere la facoltà di decidere cosa è lecito e cosa no rispetto a una legge sulla tutela del diritto d’autore che ad esempio in Italia risale al 1948, e che comunque, anche dove è stata aggiornata, è talmente complicata da lasciare margine a ogni sorta di interpretazione arbitraria.

Tutti aspetti che sviscererò meglio in post futuri. Quello che interessa per ora segnalare è che, mascherata con tecnicismi di ogni tipo, alle nostre spalle si sta giocando una partita sul diritto all’informazione nella prossima fase di caos sistemico. La crisi sarà così lunga e profonda da mettere in discussione tutti i poteri consolidati, limitare la libera circolazione delle informazioni è fondamentale per chi dal cambiamento ha tutto da perdere. Teniamo gli occhi aperti.

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