Per stare in Europa, l’Italia cambi” intima il presidente Napolitano. E il cambiamento deve, prima di tutto, partire da “un esame di coscienza collettivo che deve riguardare anche i comportamenti individuali di molti italiani di ogni parte politica e sociale. Molti italiani devono comprendere che non siamo più negli anni Ottanta e tanto meno negli anni Settanta. Il mondo è radicalmente cambiato e anche noi dobbiamo cambiare i nostri comportamenti e le nostre aspettative in senso europeo per mantenere una nostra prospettiva in Europa”.

Analizzando attentamente il significato delle parole – ben ponderate – del presidente della Repubblica, si possono cogliere diverse indicazioni sull’attuale condizione sociale ed economica del paese, ma si possono scorgere anche delle possibili traiettorie del suo prossimo futuro. L’accento nel discorso del presidente è posto con enfasi, innanzitutto, sulla necessità di restare in Europa e sull’urgenza di fare tutto ciò che serve per continuare a farne parte. Il che significa, ovviamente, che il rischio che l’Italia esca attualmente dalla zona euro non può più dirsi una simpatica fantasia. Per evitare tale concreto rischio, cioè la fuoriuscita dell’Italia dall’euro, il presidente chiede agli italiani di comprendere – una volta per tutte – che gli anni Settanta e Ottanta sono ormai definitivamente archiviati e che bisogna adeguare al più presto i “comportamenti individuali” e “le aspettative in senso europeo”.

Per comprendere il senso di queste ultime affermazioni occorre formulare due domande:

1) Quali erano i comportamenti degli italiani negli anni Settanta e Ottanta; 2) Quali sono queste “aspettative in senso europeo” che sembrerebbero imporre agli italiani di dimenticarsi di quegli anni?

Gli anni Sessanta e Settanta in Italia sono gli anni che hanno visto emergere un articolato protagonismo sociale degli italiani, quasi totalmente di segno democratico, che puntava all’espansione delle basi democratiche e sociali del Paese, anche in attuazione dei principi e dei diritti inviolabili sanciti nella Costituzione. Il ciclo di lotte sociali, sviluppatosi in quegli anni, ha portato a numerose conquiste ottenute sul piano del progresso civile e sociale. Il riferimento qui è allo statuto dei lavoratori, alla riforma sanitaria, all’istituzione delle Regioni, alla riforma del diritto di famiglia, alle leggi in favore delle donne, a quelle sulla libertà di stampa e di informazione, cioè a tutte quelle importanti leggi attuative dei diritti civili e di quelli economico-sociali. Dunque, si può dedurre che, grazie alle lotte sociali e sindacali, gli italiani, in particolare quelli appartenenti alle classi subalterne, sono finalmente riusciti a migliorare le loro generali condizioni di esistenza (a partire dalle abitudini alimentari, dell’igiene e della salute, così come sono riusciti ad avere accesso all’istruzione e ad abitazioni di migliore qualità).

La pratica dei diritti ha dunque raggiunto il suo momento più avanzato proprio negli anni Settanta, grazie anche a un ruolo interventista e garantista dello Stato. Negli anni Ottanta (e precisamente verso la metà), questo quadro storico, sociale ed istituzionale ha iniziato a venire progressivamente meno. Si può però ugualmente affermare che molte delle conquiste sociali e giuridiche degli anni Settanta sono complessivamente sopravissute anche in questa decade.

Chiedere ora agli italiani di dimenticarsi degli anni Settanta e Ottanta significa, inevitabilmente, chiedere anche di rinunciare definitivamente a tutte le conquiste sociali e civili di quegli anni. E’ interessante notare, tra l’altro, come questa richiesta del presidente Napolitano sia stata formulata a pochi giorni di distanza da quella del ministro Sacconi, il quale dall’assemblea delle Acli a Castel Gandolfo ha chiesto, a sua volta, agli italiani (presenti in sala e non) di “uscire definitivamente da un maledetto tempo, dai bastardi anni ’70 la cui onda lunga arriva fino ad oggi. Bastardi anni ’70 dove le peggiori culture secolariste si sono espresse“. L’ossessiva avversione del ministro Sacconi per gli anni Settanta, e in particolare per lo statuto dei lavoratori, è ormai nota da tempo. Ciò che sorprende è questa singolare vicinanza della dichiarazione del presidente con quella del ministro.

Insomma, occorre prendere atto che un forte grido si alza da più parti per chiedere agli italiani di abbandonare gli anni Settanta, cioè le libertà, le tutele e le garanzie allora conquistate, per poter finalmente coltivare delle “aspettative in senso europeo”. Ma quali? Per individuarle bisogna prima conoscere alcune norme basilari del Tce, il Trattato della Comunità Europea.

Per prima cosa occorre dire che sia il Tce che il Trattato sull’Ue hanno assunto il liberismo e il mercato concorrenziale come archetipo dell’intera organizzazione sociale. Anche perché la politica economica dell’Unione europea è orientata sulla stella fissa del “principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”, dotata di una “moneta unica” e di una “politica monetaria e di cambio uniche”, il cui “obiettivo principale” è quello di “mantenere la stabilità dei prezzi” (art. 4, commi 1 e 2, Tce).

Il governo della politica monetaria è affidato alla Bce (Banca centrale europea) che deve perseguire, in via esclusiva, l’obiettivo di combattere l’inflazione, ma non dispone di adeguati strumenti per combattere la recessione e la disoccupazione (e questo è cronaca degli ultimi giorni). Alla Bce è fatto divieto assoluto di finanziare enti pubblici o organismi statali (art. 101 Tce), e di conseguenza le amministrazioni pubbliche e, quindi, gli stati non possono usufruire di canali di finanziamento necessari allo svolgimento delle politiche sociali. Così sono sempre costretti a rivolgersi ai privati per trovare canali di finanziamento.

L’art. 108 del Tce fissa inoltre il principio di indipendenza, il quale comporta che la Bce e i suoi organi decisionali non possano sollecitare o accettare istruzioni, né dalle istituzioni e dagli organi comunitari, né dai governi degli Stati membri e, di converso, che questi soggetti istituzionali non possano cercare di influenzare la Bce ed i suoi organi. La Bce costituisce, quindi, un potere assolutamente non responsabile verso ogni istituzione e organo comunitario e verso i parlamenti e i governi degli Stati membri. Essa è svincolata, in particolare, da ogni controllo e obbligo verso il Parlamento europeo, salvo quello di trasmettergli “una relazione annuale sull’attività del Sebc e sulla politica monetaria dell’anno precedente e dell’anno in corso” (art. 113, terzo comma, Tce).

La Bce, oltre a non dover rispondere del suo operato di fronte a nessuna assemblea rappresentativa, dispone di poteri regolamentari, decisionali e consultivi (art. 110 Tce), necessari per imporre o per sollecitare l’adozione dei suoi indirizzi finalizzati a garantire la stabilità monetaria (del resto, l’ultima manovra economica in Italia sembra essere stata dettata con una lettera – rimasta tuttora segreta – inviata dal governatore della Bce, Jean-Claude Trichet, al governo italiano).

In altre parole, la politica economico-finanziaria dell’Unione europea, cioè quella che attualmente decide il destino individuale e collettivo di tutti noi, è stabilita e gestita da soggetti completamente sganciati da ogni forma di controllo democratico.

Si può dire ancora molto altro sul “deficit democratico” dell’Europa – ormai largamente accettato e metabolizzato da tutti come fosse anch’esso una delle istituzioni europee (cioè, accanto alla Commissione, al Parlamento, alla Corte di Giustizia e al Consiglio europeo c’è anche il “deficit democratico”) – ma quelle poche norme sopra menzionate forniscono già un quadro abbastanza esaustivo dell’architettura istituzionale, politica ed economica dell’Europa di oggi. Allora, cosa ne dite? Rientra nelle vostre aspettative?

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