Mentre il governo prova ad ultimare la danza infinita della manovra e nelle molteplici piroette di questi giorni continua a mandare all’aria ogni barlume di credibilità, una parte di italiani scende in piazza. Scende in piazza portata lì dal sindacato più grande d’Europa, la Cgil, appoggiato dal Partito Democratico. Non sono tutti, chiaro, sono quelli che abitano la frontiera che nessuno di noi vorrebbe mai valicare: quella della povertà, della non sostenibilità dello stile di vita che fino ad oggi si ha avuto. Povertà materiale e psicologica. Perché chi non può pensare con serenità al proprio futuro è povero, irrimediabilmente povero.

Lo scrivevo già qualche giorno fa: il governo è schiacciato da interessi particolari che non gli permettono di agire. Un governo così, semplicemente, dovrebbe essere mandato a casa. Ma da chi? Il potere di sfiducia appartiene al parlamento che però è fatto di nominati che rispondono a chi quel posto gli ha dato e non agli elettori che sono sempre più stanchi di fronte all’arroganza di un governo inerme. I problemi messi in fila fin qui sono quindi già tre: la povertà materiale e psicologica come minaccia su molti lavoratori, l’inazione del governo e l’impotenza dei parlamentari.

Continuo. Le cause dell’attuale crisi economica (che ormai non si capisce più quando è iniziata) partono da lontano. Partono dal momento in cui con l’unione monetaria si è pensato che il processo di integrazione europea fosse concluso. L’agenda di Lisbona basata sull’economia del sapere è stata mandata al macero, la costituzione europea rimodellata al massimo ribasso e i nazionalismi rinfocolati dall’immigrazione che proveniente soprattutto dai quei paesi dell’est europeo che iniziavano a entrare nell’Unione (allargamento a mio avviso opportuno ma precipitoso). Questa malattia si chiama particolarismo nazionalista. Sulla scena internazionale intanto si affacciavano alcuni paesi che noi occidentali da tempo avevamo bollato come “paesi in via di sviluppo”. Dopo decenni di sacrifici imposti dalle istituzioni internazionali, questi paesi si sono sviluppati, e ora non si affacciano semplicemente sulla scena economica mondiale ma vogliono un posto al volante. Semplicemente ne hanno diritto.

L’economia è una scienza, può nascondere pratiche malevole e ingiuste, ma accompagnata dai numeri non mente sulla realtà. Oggi il piano globale vede da una parte il vecchio occidente annaspare in una crisi i cui tre ingredienti principali sono: debito, fallimento della politica e debolezza del sistema bancario, mentre dall’altra scalpitano i paesi emergenti (che simpatiche definizioni sanno inventare gli occidentali per non consentire agli altri di stare sul loro stesso piano). Si chiamano Cina, India, Corea del sud, Brasile, Sud Africa, Russia e altri sono lì lì per arrivare.

Dal punto di vista della storia economica globale si sta solo attuando un caso eclatante, se vogliamo, di rottamazione economica. I vecchi devono andare in pensione e i giovani devono diventare adulti e prendere il loro posto.

Da una parte abbiamo Italia, Europa e Stati Uniti dove si scende in piazza per paura della povertà (indignados docet) causata da governi insipienti su cui i parlamenti non agiscono e che vengono puniti alla prima occasione dall’elettorato (vedi le elezioni locali in Spagna e Italia di qualche settimana fa, quelle del mid term americano e quelle locali di ieri in Germania). Dall’altra nuovi Paesi che ormai viaggiano a vele spiegate, cogliendo i frutti di tanti decenni di sacrifici.Secondo la visione classica, alla quale siamo stati abituati fin da piccoli e nella quale siamo cresciuti, prima o poi l’occidente perderà e il pianeta vedrà il volante economico passare nelle mani di altri paesi.

Quello che mi chiedo è se deve essere così. Se il processo è ineluttabile. La mia risposta è no. Sono convinto che si possa governare il pianeta, che è uno solo, assieme, ma che per farlo ci vogliano menti nuove, fresche. Il “tavolo dei potenti” può essere allargato, senza aggiungere sedie.

La conseguenza è però che per il vecchio occidente a quel tavolo ci sono solo due sedie: una per gli Stati Uniti e una per l’Unione Europea. Che lo si voglia o no il futuro è questo. Il resto sono chiacchiere improvvisate di politici ed economisti miopi che vedono male da vicino e non sanno guardare lontano. Guadagnare la possibilità di quella poltrona significa uscire dalla crisi il prima possibile.

Parlare di Eurobond è giusto. Solo un debito che si regge sulla credibilità e sul peso di tutte le economie dell’eurozona intera può reggere il confronto in quel campionato globale che il pianeta ha iniziato a giocare. Sarebbe il primo importante segnale che si vuole andare oltre la politica nazionalista europea.

Su questo tema ci sono due punti interessanti. l’incontro Merkel-Sarkozy del 16 Agosto che dice no agli Eurobond e la richiesta di Tremonti degli Eurobond. Il Presidente francese e la cancelliera tedesca dicono no agli Eurobond perché sanno che significa perdita di popolarità presso i propri elettorati che non ne possono più di aiutare paesi dalle economie più deboli e con governi più irresponsabili quando i loro governi hanno fatto per tempo manovre forti e di sacrificio che li hanno portati in una situazione di relativa tranquillità economica.

Il buffo tra i tre è Tremonti. È buffo perché fa parte di un governo che da quando si è insediato ha manifestamente espresso il proprio antieuropeismo non solo a parole ma nei fatti. Le dichiarazioni di Bossi e di altri ministri leghisti (ma non solo) che da noi vengono lasciate passare come folklore, vengono lette a Bruxelles come dichiarazioni di ministri, di rappresentanti di governo.

Con che faccia il nostro ministro dell’economia si presenta con i conti a pezzi, invocando gli eurobond, quando ha la targa di un governo antieuropeo? Non è credibile e la sua voce non ha rilevanza alcuna. Ad oggi riusciamo ad ottenere le cose solo perché un default dell’Italia si tirerebbe dietro tutti quanti. Ma chiunque si accorge che è una posizione di forza relativa, basata sul ricatto e non su una riconosciuta leadership.

Il no agli Eurobond ci toglie dal gioco. L’Europa non è unita e divisa perde. La battaglia della sinistra (se vuole davvero essere di governo) deve iniziare da qui. Deve iniziare dal far comprendere che l’Europa, così com’è non è una risorsa ma un fardello inutile. Deve combattere a Bruxelles con i suoi parlamentari e deve farlo a Roma incalzando il governo. Deve mandare i propri amministratori sul territorio per fare capire che questa è l’unica opzione. Deve farlo insieme alle altre forze sociali, e con gli imprenditori, e deve innalzare il dibattito. È questa la battaglia da fare, contro la Lega e contro tutti coloro che presentano il particolarismo e il nazionalismo come ricetta. Il Partito Democratico deve impostare un’azione europea. Deve parlare con i socialisti francesi, spagnoli, tedeschi ecc… e deve coalizzarli su questa posizione. Più Europa, davvero, nei fatti. Se non ci si riesce ci sarà meno europa ai tavoli che contano e le nostre economie rotoleranno nel basso e il futuro non sarà roseo per nessuno.

Oltre a questo ci sono altri due temi.

Da un lato il taglio alla spesa pubblica e agli investimenti non fanno il paio con la crescita economica. È una politica economica vecchia. È quella che ha costretto i paesi dell’America Latina a sottostare al gioco delle istituzioni internazionali che hanno costretto a tagli pesanti e rallentato la crescita. La crescita va stimolata e non lo si fa con i tagli ma con iniezioni di stimoli che solo un governo può fare. Anche questo va fatto soprattutto a livello europeo con ricadute locali, con indicazioni chiare ai livelli nazionali. Una volta che la crescita si sarà stabilizzata allora si potranno fare i tagli grossi.

Dall’altro la riforma dei mercati finanziari e del sistema bancario non è più procrastinabile. Gran parte della crisi che stiamo vivendo proviene da quel mondo. I governi devono agire subito, in modo coordinato. Le banche debbono essere viste come istituti di pubblica utilità, alla stregua di quello che sono l’acqua e l’elettricità. Per loro devono essere previsti livelli pesanti di regolamentazione per la salvaguardia dell’interesse pubblico. Regole chiare fissate dai governi a differenza di quello che accade oggi dove sono i governi che rispondono a regole che fissano le banche. È questo l’asse principale da rivoltare. Molte di quelle attività che fanno assomigliare le banche e la finanza a dei casinò debbono essere eliminate. È suggestiva la proposta dell’economista di Cambridge Ha-Joon Vhang per cui tutte le nuove attività finanziarie dovrebbero essere sottoposte allo stesso regime cui sono sottoposti i nuovi farmaci che sono vietati fino al moneto in cui non si prova che sono utili.

Queste sono le sfide che ci attendono e alle quali bisogna reagire subito, immediatamente. È questa la risposta da dare alle paure, giustificate, che ieri hanno riempito le piazze italiane. Smettiamola di considerare il popolo bue e capiamo che i veri buoi sono altri e siedono dove non dovrebbero stare.

Quando al popolo italiano vengono spiegate le cose reagisce e lo fa con compattezza. Il non governo di questi mesi invece provoca timori che hanno come conseguenza un nervosismo sociale che non fa bene a nessuno.

La speranza di un colpo di reni di responsabilità è sempre l’ultima a morire…

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