Purtroppo era uno slogan sbagliato: “Non moriremo democristiani”, recitava lo splendido e provocatorio imperativo coniato da Luigi Pintor e dalla banda irriverente de Il Manifesto. A furia di ripeterlo come un anatema, l’Italia democratica ha vissuto berlusconianamente per 17 lunghi anni, e molto peggio di quanto non potesse immaginare, molto peggio che sotto lo scudo crociato. La morte di Mino Martinazzoli, con il lascito ieratico di un bellissimo volto rugoso che era il contrario dell’estetica liftata che ci attendeva, ci regala oggi la possibilità di un’altra ipotesi. Quella secondo cui c’è stato un pezzo di Democrazia cristiana che vale la pena di iniziare a rimpiangere, da subito, un vivere democristiano che oggi diventa persino esemplare.

La Dc democratica di cui Martinazzoli fu campione, infatti, fu accusata dalla sinistra di essere un partito confessionale. Ma rispetto al bigottismo parlamentare dei presunti laici, si rimpiange quell’Alcide De Gasperi che nel 1952 poteva permettersi di dire no a Pio XII. Il papa voleva che capitanasse una lista comune con le destre in funzione anticomunista, e invece lui non accettò e vinse senza aiuti. Mesi dopo, quando la sorella di De Gasperi divenne suora, Pio XII si vendicò rifiutando l’udienza al leader democristiano. E De Gasperi scrisse una pagina esemplare cesellando una lettera in cui diceva: “Come cattolico accetto l’umiliazione. Ma come capo di Stato esigo spiegazioni”. Si mossero gli ambasciatori, altri tempi.

Nel tempo delle opere pubbliche tarocche, bisogna riconoscere che il piano casa di Fanfani è l’unico esempio di edilizia pubblica che questo Paese abbia conosciuto a livello nazionale. La Dc che era diventata il principale bersaglio della contestazione giovanile era quella stessa che partoriva un ex partigiano come Enrico Mattei a capo dell’industria italiana e un pedagogo illuminato come Ettore Bernabei alla guida della Rai. La Dc fu il partito dei grandi convegni preparatori del centrosinistra a San Pellegrino. Il partito di una certa sobrietà, catturata con le memorabili foto di Aldo Moro al mare in giacca e cravatta, che pare francescana nel tempo delle puttane e delle veline all’Olgettina. Era il partito di Carlo Donat Cattin che non si vergognava di proclamarsi non “ministro del Lavoro”, ma “dei lavoratori” (e bisognerebbe spiegare la differenza alla sinistra a girocollo).

C’è stato anche un pezzo di Dc che ha tramato nell’ombra, è vero. Ma anche quella che dopo Piazza Fontana ha fatto fronte comune con la sinistra per fermare la stagione dei golpe (riuscendoci). C’è stata una Dc che ha combattuto i poteri occulti a testa alta firmando con Tina Anselmi la condanna tombale della P2. E c’è stato un Mino Martinazzoli capace di affondare il suo stesso governo (quello di Fanfani), nel 1987, con quel memorabile discorso che diceva: “La recita si è fatta scadente, abbassiamo il sipario”. Quanto sarebbe utile questa invettiva contro il teatrino della politica, nel tempo dei leader che sopravvivono a se stessi, come farebbe bene a rileggersi quel discorso, l’ex giovane democristiano Angelino Alfano. E quanto era stato profetico un altro grande discorso di Martinazzoli al congresso democristiano del 1989, una sconfitta contro Arnaldo Forlani da 27 minuti di applausi, e quel paradosso consegnato con intelligenza alla storia: “Abbiamo combattuto per una vita quelli per cui la politica era tutto (i comunisti, ndr), adesso ci ritroviamo come nemico quelli per cui la politica è nulla” (gli ultracorpi azzurri). Profetico.

Nel 1990 toccò a De Mita affermare il primato della politica sul potere, con le clamorose dimissioni di cinque ministri democristiani contro la legge Mammì (che spianava la strada a Mediaset). Nella Dc Aldo Moro – ed era Moro! – rimase per quattro anni all’opposizione di tutto, senza un solo incarico, con una lezione per i leaderini che oggi muoiono se stanno cinque minuti senza scorta e auto blu. Un giornalista progressista, Marco Damilano, ha inventato – anche per raccontare questo impasto di miseria e nobiltà – la categoria apologetica dei Democristiani immaginari in un libro che è l’unico vero compendio della grandezza di quella che Giampaolo Pansa chiamò la “Balena bianca”. Non siamo morti democristiani, è vero. Ma guardando come siamo finiti, dopotutto, sarebbe stato quasi bello.

Il Fatto Quotidiano, 6 settembre 2011

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