Qualcuno continua a chiamarli “giovani”, ma molti di loro hanno superato la quarantina da un pezzo (vedi Zingaretti). Forse per una sorta di relativismo generazionale (in Italia persino il cinquantatreenne Nichi Vendola di questi tempi riesce a passare per nuovo), o forse perché il nome che si sono scelti è davvero brutto : T/Q, ovvero trenta-quarantenni, la generazione che si è stancata di stare in fila dietro ai capicorrente e ora vuole prendere il controllo del Pd. Approfittando della debolezza di Bersani, coinvolto dall’onda lunga dell’affaire Penati, duecento “giovani” dirigenti del Pd si sono riuniti sabato per chiedere un cambio di passo. Messaggio chiaro, niente giri di parole: visto che il segretario continua a ripetere la storia del “partito di governo momentaneamente all’opposizione”, quando il Pd tornerà a Palazzo Chigi “non potrà riproporre la stessa squadra del ’96”.

Anche il luogo scelto per lanciare la richiesta di rinnovamento – Pesaro, durante la Festa nazionale del partito – non è stato casuale: nessuno vuole fare più il carbonaro, tutto avviene alla luce del sole. Anche le divisioni interne. I quarantenni infatti sono spaccati in due. Da una parte chi chiede di cambiare classe dirigente, senza però “detronizzare” il segretario, dall’altra chi, come Renzi, spinge per la rottamazione senza compromessi.

La linea dei “bersaniani” l’ha dettata Zingaretti. “Quando si faranno le primarie voterò Bersani – ha detto senza troppi giri di parole il presidente della Provincia di Roma – E smettiamola di pensare che i problemi si risolvano cambiando segretario. Quanti ne abbiamo già cambiati in quattro anni?”. Nel suo intervento non sono mancate frecciatine al sindaco di Firenze, mai nominato esplicitamente ma in qualche modo evocato. “L’individualismo, il particolarismo, può andar bene a qualcuno per fare carriera, ma non va bene per cambiare l’Italia”.

Tra i fedelissimi di Bersani il gruppo dei D’Alema boys, con in testa Matteo Orfini, membro della segreteria nazionale del partito, che a Pesaro ha rotto anche il tabù di un prodismo di ritorno: “Noi non possiamo ripartire dalle idee di Prodi perché quei governi hanno fallito”.

Solo Ivan Scalfarotto ha provato a lasciare una porta aperta al sindaco di Firenze: “Renzi mica è fuori, è dentro al Pd, è con noi”, ha detto il vicepresidente dei democratici. “Mi piacerebbe che non facesse da solo, perché questo Paese non ha bisogno di un uomo della provvidenza, l’ha già avuto, ma di una classe dirigente nuova e diffusa. Dobbiamo stare uniti”. Ma in pochi sembrano disposti ad ascoltarlo. Compreso Renzi, che con l’intervista a Repubblica di venerdì ha detto chiaramente di voler correre per la premiership.

Il numero uno di Palazzo Vecchio però non giocherà la sua partita in solitaria. Sta già costruendo la sua squadra, alternativa a quella di Zingaretti e anche a quella di Civati, che comunque a Pesaro c’era. Alla nuova Leopolda lancerà Matteo Richetti, 37 anni, presidente del Consiglio regionale dell’Emilia Romagna, e Davide Faraone, 36 anni, candidato sindaco di Palermo che ha lanciato la sfida al Pd siciliano sull’appoggio alla giunta di Lombardo.

Prima dobbiamo costruire insieme il campo da gioco, poi magari giocheremo in squadre avversarie”, prova a mediare Scalfarotto. Ma la partita per il rinnovamento sembra già iniziata.

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