La Cina potrebbe ispirarsi all’Italia per varare disposizioni di legge destinate a censurare l’utilizzo di Internet o, comunque, per giustificare le autoritarie scelte sin qui compiute.

È questo il pensiero che l’ambasciatore americano in Italia, Thorne affida a uno dei cablogrammi pubblicati da Wikileaks parlando del famigerato decreto Romani, padre putativo della nuova regolamentazione sulla tutela del diritto d’autore in Rete che l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni varerà nelle prossime settimane e che, prima dell’estate è stata oggetto di un acceso – anche se sin qui pressoché inutile – dibattito in Rete e fuori dalla Rete.

Non serviva un cablogramma a stelle e strisce per arrivare a una simile conclusione ma, certo, leggere che l’approccio a Internet del nostro Governo viene considerato un possibile esempio o, addirittura, un alibi per uno dei regimi più autoritari e restrittivi tra quelli che guardano alla Rete come a un pericoloso nemico, fa una certa impressione e costituisce un’importante conferma del rischio che il Paese sta correndo.

Questo Governo, nel nome di interessi privati legati al vecchio impero mediatico del suo ormai – almeno anagraficamente – vecchio premier, sta minacciando di trasformare la penisola in un’isola analogica abbandonata alla deriva in un mondo sempre più digitale.

Se quello raccontato nei cablogrammi di Wikileaks era il pensiero dell’ambasciatore americano a proposito del decreto Romani, chissà cosa penseranno oltre oceano del nuovo regolamento che l’Autorità sta per varare e che, appunto, di quel decreto è figlio, sebbene “illegittimo”.

Un’Autorità che nei cablogrammi viene testualmente definita “theoretically an independent agency” che si arroga il diritto di dettare le regole della circolazione dei contenuti e delle informazioni in Rete e – unificando in sé tutti i poteri dello Stato – anche quello di applicare le regole che scriverà al di fuori di ogni controllo giurisdizionale e nell’ambito di procedimenti sommari e senza contraddittorio – chissà come sarà vista dall’altra parte dell’oceano e chissà quali iniziative censoree cinesi o di quale altro regime autoritario ispirerà.

E non mi si venga a dire che la posizione statunitense sulla nuova disciplina Agcom in materia di diritto d’autore è davvero quella di grande plauso e soddisfazione espressa nel Rapporto 301 dell’office of the United States Trade Representative perché, come già scritto, è fin troppo evidente che quella posizione è stata dettata, quasi parola per parola, dall’industria dei contenuti ovvero dagli stessi soggetti che, in nome del proprio tornaconto economico personale, stanno muovendo i fili degli obbedienti burattini che siedono nella nostra “autorità (n.d.r. quella per le garanzie nelle comunicazioni) teoricamente indipendente” come la definisce lo stesso ambasciatore americano in Italia nel suo cablogramma a Washington.

È questo il Paese che vogliamo? Davvero non meritiamo di avere altra ambizione in termini di governance della Rete che quella di rappresentare l’esempio o l’alibi per regimi autoritari come quello cinese?

Una volta si diceva l’Italia come la Cina per indicare il rischio di certe derive autoritarie, ormai, pare si dica la Cina come l’Italia, per riferirsi a derive troppo autoritarie persino per il regime cinese.

Il segno dei tempi e di quello che accade se si lascia che un Paese venga governato in nome di interessi privati.

Articolo Precedente

Caro lettore, niente si somma a niente

next
Articolo Successivo

Di Stefano, lo Spartacus dell’etere

next