Se ne riparla tra due anni. In un breve comunicato diffuso ieri – tre paragrafi in tutto – Barack Obama ha fatto sapere d’avere accantonato (o, più realisticamente, d’aver gettato al macero) tutte le nuove norme che, elaborate negli ultimi tempi dall’EPA (Environmental Protection Agency), erano destinate a disciplinare le emissioni di ozono. Ovvero: a garantire, in linea con le più aggiornate ricerche scientifiche, la salubrità dell’aria respirata dai cittadini di quella che continua (con decrescente legittimità) a chiamare se stessa “la più grande nazione del mondo”.

Piuttosto ovvie – e ovviamente mediocri – le ragioni d’una tale decisione: non far gravare sulla cosiddetta “business community” – altrimenti conosciuta come “i padroni del vapore” – costi aggiuntivi in tempi di crisi. L’occupazione, insomma, al primo posto. E se questo significa far respirare agli americani, per un paio d’anni ancora, la stessa aria mefitica che (non solo metaforicamente) aveva riempito i loro polmoni ai tempi di George W. Bush (un vero e proprio killer di regolamenti pro-ambiente), il sacrificio ben vale, come si usa dire, la candela…

La decisione di Obama ha, comprensibilmente, gettato nello sconforto il già alquanto depresso movimento ambientalista americano, non secondaria frazione di quell’America progressista che, di Obama, è fin qui stata la naturale base politica (o lo “zoccolo duro”, per gli italiani che ancora conservino qualche futile memoria della filosofia occhettiana pre-bolognina). E ha portato ad alquanto amare considerazioni sulle dimensioni d’una ritirata che, a questo punto, neppure il più ottimista degli uomini potrebbe considerare “strategica”. Qualcuno, forse, ancora ricorda. Nell’Obama originale – quello del “yes, we can” e del “change we can believe in” – il risanamento ambientale era, soprattutto sul suo versante energetico, non un gravame economico (poco importa se necessario o meno) in tempi di crisi, ma uno dei principali motori della ripresa; non un modo per distruggere posti di lavoro, ma per crearli. E, più in generale, un modo per preservare la leadership americana in campo economico. Perché – sosteneva il candidato della “speranza” – il futuro appartiene a chi sarà in grado di garantire energia pulita e rinnovabile al motore della propria crescita. Qualcuno – e sembra, ormai, di parlare di un’altra era geologica – l’aveva chiamata “economia verde”…

Chissà. Forse, come il cinismo dei “realisti” suggerisce, non si trattava che d’un sogno, d’una utopia sottile come la carta velina d’un aquilone, e destinata, comunque, ad esser spazzata via dalla tempesta d’una crisi (la stessa crisi che la “economia verde” pretendeva risolvere) di epocali dimensioni. Forse doveva finire così. Ma resta il fatto che, per abbattere quel sogno, fu sufficiente – quando la presidenza Obama non era vecchia che di qualche mese – un quasi impercettibile alito di vento. Nel luglio del 2009, Antony K. “Van” Jones, il consigliere di Obama che della “economia verde” doveva essere il gran regista, venne messo alla porta in fretta e furia non appena i repubblicani contestarono alcune sue antiche (e assai dubbie) frequentazioni di gruppi “marxisti”. E, da allora, la ritirata ambientalista del primo presidente non bianco della storia d’America è continuata in modo lineare e precipitoso, senza mai incontrare alcuna “linea del Piave”. Trincea dopo trincea, casamatta dopo casamatta. Fino alla decisione di venerdì scorso, di fatto allineata con la posizione di chi (i repubblicani) vede nell’EPA – l’agenzia governativa addetta alla protezione ambientale – il “grande assassino”. O, più esattamente: il grande responsabile della strage di posti di lavoro che ha messo in ginocchio l’economia americana. Uscire dalla crisi significa essenzialmente, per la destra americana – e Obama sembra non dissentire – ridare ai padroni del vapore (opportunamente definiti, per l’occasione, “job creators”, creatori di posti di lavoro, anche quando quei posti li esportano all’estero) la possibilità di avvelenare le acque, d’appestare l’aria e di spremere come un limone la forza lavoro… Dagli all’EPA, dunque. Dagli a tutti i regolamenti che impediscono la libera esplosione delle forze del mercato. E dagli soprattutto a tutti coloro che rammentano come proprio la libera esplosione delle forze di mercato sia, come la Storia e la cronaca inequivocabilmente indicano, la vera causa della crisi in corso…

E proprio questo è l’aspetto più triste della storia. Le battaglie, in politica, si vincono e si perdono. Ma Obama sembra, a questo punto, non avere, in realtà, né vinto né perso. Ha, semplicemente, smarrito per strada il senso della battaglia che andava combattendo, le ragioni della sua presidenza. In breve: Obama ha smesso di combattere, anzi a combattere non ha mai nemmeno cominciato, da subito impantanandosi in una sorta di terra di nessuno, nella morta gora d’un centrismo senza qualità, dove solo la logica d’una perenne mediazione al ribasso sembra in grado di sopravvivere. È in questa terra di nessuno che Obama s’appresta ora, abbandonato il fronte ambientalista, a rilanciare la propria presidenza e la propria campagna elettorale, presentando, di fronte ai due rami del Congresso, una “proposta per il lavoro”. Null’altro che aria fritta, probabilmente, da chi, un tempo, prometteva aria pulita…

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