Lo so che non ha senso fare la gara a chi sta messo peggio. Però bisognerà pure dirlo, che Milano è più indietro di Palermo, per quanto riguarda la consapevolezza antimafia. Nei giorni scorsi ho partecipato, a Palermo, alle iniziative per il ventesimo anniversario dell’uccisione di Libero Grassi. “Il 29 agosto 1991 qui è stato assassinato Libero Grassi, imprenditore, uomo coraggioso, ucciso dalla mafia, dall’omertà dell’associazione degli industriali, dall’indifferenza dei partiti, dall’assenza dello Stato”. Così sta scritto sul manifesto che ogni anno viene affisso, sempre uguale, dai famigliari in via Alfieri, nel luogo dove il killer di Cosa nostra entrò in azione per far tacere per sempre un uomo libero che non solo aveva detto no al pizzo, ma lo aveva detto pubblicamente, dichiarandolo a voce alta e mettendoci la faccia, sui giornali e in tv.

Che brivido, assistere al semplice rito che si ripete ogni anno: la figlia Alice che incolla il manifesto scritto a mano, segna il marciapiede con la vernice rossa come il sangue, aggiunge uno struggente mazzolino di fiori rosa. Accanto, il fratello Davide e poi lei, Pina Maisano Grassi, la moglie di Libero, che non ha mai rivestito i panni convenzionali della vedova e che ha invece tenuto vivo per due decenni, con l’incredibile leggerezza del suo sorriso, la memoria di un uomo coraggioso.

Certo, ci sono anche le autorità, i gonfaloni, le corone d’alloro: ma tenute quasi a distanza da questi segni sobri che la famiglia e gli amici ripetono e che ti entrano nel cuore più forti di ogni celebrazione retorica. Attorno ci sono, soprattutto, i ragazzi, le donne, gli uomini di Addiopizzo, il gruppo che ha dato gambe concrete, mani, voci e volti alla rivolta di Libero Grassi, ha rovesciato la sua solitudine e la sua emarginazione in un movimento che dice di no al racket. Quelli che Pina chiama “i miei nipoti” e che hanno trasformato una sconfitta in una possibilità di vittoria. Lo si è visto al concerto del giorno prima a palazzo Steri, con i ragazzi che cantano i rap antimafia. E alla serata successiva, con gli interventi di magistrati come Nico Gozzo e Maurizio De Lucia, di un iniziatore della rivolta antiracket come Tano Grasso, di Ugo Forello di Addiopizzo. E di Beppe Catanzaro, rappresentante di Confindustria Sicilia, che con Ivan Lobello sta compiendo la rivoluzione che Libero Grassi ha anticipato vent’anni fa: il pizzo non si paga, chi paga è complice, chi paga deve essere messo fuori dalle associazioni degli imprenditori e dei professionisti.

E quaggiù al Nord? Certo, la strada da fare è ancora lunga, in Sicilia, a Palermo. Ma a Milano il cammino non sembra neppure iniziato. A Milano la mafia non esiste (così hanno detto il prefetto Valerio Lombardi, l’ex sindaco Letizia Moratti, il presidente delle Regione Roberto Formigoni). A Milano Confindustria tarda a prendere posizione. Li abbiamo visti, gli imprenditori – nati a Milano o comunque al Nord – che hanno fatto scena muta davanti al giudice che ai processi di ’ndrangheta chiedeva loro come mai non avevano mosso un dito dopo aver avuto i cantieri bruciati nell’hinterland milanese. Come mai avevano preferito lavorare con i boss calabresi, anche a costo di guadagnare di meno. Non ha senso fare la gara a chi è peggio. Ma per favore, dateci una mano, ragazzi di Addiopizzo. Venga a parlare anche qui a Milano, Pina Grassi, a cui sarebbe bello (come proposto in questi giorni da De Lucia) assegnare un seggio di senatore a vita.

Il Fatto Quotidiano, 1 settembre 2011

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