L’ho già detto che Franco Franchi, il comico palermitano, la faccia di gomma, il doppio di Ciccio Ingrassia, sognava di fare l’imitazione di Gheddafi in un grande show del sabato sera, magari con sottofondo coreografico, un bel Cicale Cicale di Heather Parisi?

Se l’ho detto, bene. Non è colpa mia se l’intera ideale palizzata televisiva da assai più di un mese è interamente tappezzata di immagini che giungono dalla Libia, anzi, dalla Quarta Sponda del gagliardo eppure tramontato tempo mussoliniano. Sequenze filmate che, chissà come, sembrano già viste, puro e garantito déjà-vu storico, non per nulla spesso e volentieri vengono accompagnate, a mo’ di compendio, dalla scena del mancato abbattimento della statua del “collega” iracheno Saddam, con la struttura tubolare che fuoriesce dai non meno bronzei pantaloni, e questo alla faccia dei tiranti del tank dell’odiato satana nemico a stelle e strisce. Un espediente narrativo che un po’ testimonia la pigrizia del compilatore del servizio (lo sapete, no, come avviene il montaggio? In modo meccanico, quasi pavloviano: Saddam uguale dittatore dunque Gheddafi uguale a Saddam, e così via… ) e un po’ deve soddisfare la voglia di prevedibile catarsi, e così via.

Ora, mettendo da parte l’impagabile intervista di Monica Maggioni in abito da piano-bar all’ambasciatore di Libia di Italia vista su Rai1 nei giorni scorsi, Abdulhafed Gaddur, con quest’ultimo che in fluente italiano narrava, anzi garantiva, l’esistenza di un Gheddafi “tollerante” ed estraneo a ogni forma di “ingerenza” nel lavoro diplomatico, un governante illuminato, insomma, così fino a un’improvvisa sua mutazione nel dittatore invasato delle ultime settimane, bene, mettendo da parte questa gemma mediatica (a proposito: il sito dell’Ambasciata di Libia in Italia mostra ancora le antiche insegne verdi, e nel contempo risulta “in costruzione”) non si può non fare ritorno al filmato paradigmatico del fortunato miliziano di Bengasi che mostra il trofeo conquistato nel bunker-complesso multi-residenziale di Muammar Gheddafi, quel berretto bianco e rosso da “colonnello” guarnito di greche e sormontato da un enorme fregio quasi imperiale. Il miliziano che lo indossa, innalza anche una grande catena da rapper al collo a favore di una t-shirt grigio fumo, una bizzarra miscela “uniformologica” che lo rende assai più simile a uno sfollato, a un assaltatore dei formi piuttosto che a un combattente, sia pure irregolare.

E anche in questo caso, come già poco prima a proposito della statua abbattuta e ridotta a simulacro dell’odiato tiranno da colpire in effige con gesti meccanicamente tribali, diventa d’obbligo fare ritorno ad altre immagini analoghe, sia pure appartenenti a un tempo pre-televisivo. Il ragazzino di Dongo che a un passo dal lungolago mostrava il cappotto trovato addosso a Mussolini durante il suo tentativo di fuga a bordo di un camion tedesco, e poi, va da sé, le divise di Hitler trovate all’interno del bunker della Cancelleria di Berlino dalle avanguardie dell’Armata Rossa sovietica. Tutte immagini che con i tempi che corrono suggeriscono in definitiva un interrogativo finale: vuoi vedere che il berretto del caro Muammar domani stesso ce lo troviamo su eBay con base d’asta mille dollari?

Nella foto, Monica Maggioni

Il Fatto Quotidiano, 28 agosto 2011

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