In questi due giorni ho partecipato a un gruppo di lavoro sulla Big Society, il peso dello Stato, il federalismo, le politiche a sostegno delle nuove imprese. Quando il coordinatore del gruppo, durante la sua introduzione ai lavori, ha chiesto ai partecipanti “ma tra di noi siamo tutti liberisti, vero?” ho immediatamente realizzato che sarebbero state ore in cui avrei imparato molto e, soprattutto, che le mie idee sarebbero state largamente minoritarie.

La Big Society di David Cameron è a mio avviso niente più di un brand elettorale. I politici inglesi sapevano fin troppo bene che avrebbero dovuto ricorrere a tagli durissimi della spesa pubblica, dei servizi, delle possibilità democratica di accesso alla conoscenza.

Ma dovevano vincere le elezioni, recuperare voti, non spaventare i cittadini. E allora tutto sommato è meglio dire “lo Stato siete voi, allarghiamo le possibilità ai privati e alla società civile” rispetto a un “a breve lo Stato complicherà la vita dei più poveri”.

Immaginate una declinazione italiana di questa idea: il Governo italiano, che dopo settimane di discussione sulla manovra finanziaria ha sostanzialmente deciso di rinviare a tempo indeterminato l’appuntamento con la riduzione dei costi inutili della politica, preferendo interventi immediati e retroattivi sulle pensioni, riuscirebbe a disinteressarsi completamente del welfare e dei servizi pubblici essenziali con il pretesto dell’allargamento della platea degli stakeholders.

Non ho ancora capito perché alla Big society debba necessariamente corrispondere uno Small State. E soprattutto, dobbiamo intenderci sul significato degli aggettivi: per Big si fa riferimento ai costi della macchina pubblica o al ruolo dello Stato nell’offerta di servizi? Se si parla di spese, un intervento per uno Stato meno “Big” è indispensabile, oltre che largamente condiviso dagli italiani. Ma non sono affatto sicuro che i cittadini vogliano uno Stato meno presente.

Durante il dibattito ho lanciato una provocazione e mi piacerebbe conoscere il vostro parere in merito. L’Italia ha la terza pressione fiscale nel mondo: secondo voi gli italiani preferirebbero pagare le tasse che pagano ora ricevendo in cambio servizi di eccellenza, o pagare meno tasse per avere i servizi della qualità attuale, affidandosi ai privati per ciò che manca? Io sono convinto che la prima soluzione sia quella maggiormente gradita dagli italiani.

Il malinteso che ha portato gli italiani a desiderare il ruolo dei privati nella cosa pubblica deriva quasi esclusivamente dalla sfiducia per la politica: i cittadini chiedono la trasparenza della macchina amministrativa, l’open data, il merito, la valutazione oggettiva dei dipendenti pubblici, dall’impiegato al Parlamentare, con una quota percentuale dello stipendio collegata ai risultati e al raggiungimento degli obiettivi (senza la sovrapposizione tra valutatori e valutati, tipica delle Pa). Queste richieste fanno già parte dei processi aziendali che hanno l’obbligo di mettere in campo le migliori pratiche di valutazione per competere e sopravvivere.

In questi quattro anni, però, i privati hanno perso quasi tutta la loro autorevolezza. Dal crac di Lehman Brothers alla crisi finanziaria di quest’estate, passando per le bollette salate delle utilities dell’acqua italiana (a fronte di un servizio nient’affatto migliore), cresce un sentimento: se un cittadino può mandare a casa un politico, pur nascosto nei privilegi e nel porcellum, attraverso l’esercizio democratico del voto, non può fare lo stesso con “i mercati”, o “gli speculatori”, contesti che incidono sulla nostra vita di tutti i giorni senza avere un nome e un cognome.  Il risultato del referendum è una spia della volontà di ritornare ai beni comuni e collettivi.

Lo Stato non dovrebbe ritirarsi: sarebbe come fuggire col bottino accumulato in questi anni. Dovrebbe piuttosto affrontare le proprie responsabilità. Dovrebbe passare dalla logica della dismissione a quella dell’ascolto. Dovrebbe dialogare coi cittadini attraverso i social media e dovrebbe imparare dalla “saggezza della folla”: non ci sono motivi né limiti tecnologici che, oggi, impediscono questo nuovo approccio.

Lo Stato e la società civile non dovrebbero entrare in competizione per l’offerta di servizi: il primo deve imparare dalla seconda. Bisogna creare una cinghia di trasmissione tra azione della pubblica amministrazione e iniziativa privata di start-up, venture capital, terzo settore.

Per farlo si potrebbe provare a iniziare da una legge che obbliga tutte le amministrazioni pubbliche, dal Governo all’ultimo dei comuni, a rendere pubblici i dati amministrativi (open data). Allo stesso tempo, obbliga a investire una parte anche marginale del proprio bilancio su progetti mirati a migliorare l’efficacia e l’efficienza della Pa e, elemento molto più politico e vincolante, a misurare la soddisfazione dei cittadini in merito ai progetti finanziati: se si supera una certa soglia di citizen satisfaction o il progetto (privato a partecipazione pubblica) crea utili, lo Stato lo fa suo, importando il know-how, rinnovando il finanziamento o internalizzando la struttura.

Si passerebe così dalla Big Society a una costellazione di Small Society. Ma soprattutto, si supererebbe la contrapposizione del tutto artificiosa tra pubblico e privato e tra politica e società civile.

Il mio modello non è la Big Society ma una Smart Society, dove la lettera maiuscola non cade sull’ordine di grandezza ma sul patto tra cittadini e istituzioni che è alla base della formazione di capitale sociale, a sua volta elemento decisivo per la produzione di energia positiva, virtuosa, che sa produrre servizi pubblici efficienti, crea opportunità di profitto per i privati e genera benessere diffuso. Il mio modello è un Paese cooperativo e intelligente.

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