Senza voler invadere campi altrui, penso sia impossibile per uno che bazzica nello sport non interessarsi in questi giorni allo “sciopero” dei calciatori. Le virgolette paiono d’obbligo nel momento in cui mancano chiaramente gli elementi costitutivi dello sciopero, che secondo la dottrina è tale quando sussistono sia la  facoltà (costituzionalmente garantita) del lavoratore di non prestare il lavoro che il conseguente venir meno dell’obbligo del datore di corrispondergli la retribuzione.

Allora non siamo di fronte a uno sciopero, questo è sicuro. E neppure a una serrata, come nel caso della Nba. Là i proprietari hanno deciso di esercitare un loro diritto (peraltro non chiaramente garantito alla parte datoriale italiana) per mettere pressione sulla controparte in una trattativa collettiva da cui dipende direttamente il monte salari complessivamente destinato ai giocatori. Tra parentesi: in caso di sciopero o serrata, negli Usa è facile calcolare la trattenuta da esercitare. L’accordo collettivo appena scaduto nella Nba, ad esempio, spiega che chi non si presenta a una partita si vede trattenere un centodecimo del proprio salario annuale.

Se sciopero non è e serrata neppure, siamo di fronte a quello che i giuristi chiamano “tertium genus”. Io, sprovvisto delle necessarie competenze e conoscenze, sarei più interessato a trovare la carta di identità di questo sconosciuto che non a prendere aprioristicamente posizione per una delle parti “in causa”. Rimpallarsi i salari miliardari tra i “viziati” che li percepiscono ed i “ricchi scemi” che li pagano è operazione che non credo possa appassionare chicchessia.

Così come è auspicabile che nessuno creda che la materia del contendere siano davvero i celeberrimi (ma anch’essi poco e male investigati) articoli 4 e 7. Per il rispetto dovuto alla minima intelligenza del pubblico, non vale neppure la pena di sottolineare la totale sproporzione tra l’importanza delle “rivendicazioni” rispetto al quadro generale  e la misura presa (lo “sciopero”).

E allora deve esserci qualcos’altro, senza per questo passare per complottista. Cosa, ripeto, non lo so. Qualcuno dice la volontà delle società di avere altro tempo per cominciare, qualcuno dice problemi di (non tanto) vil denaro. Sia come sia, credo converrebbe discutere di questo e non di propaganda. Magari provando anche a prendere atto che lo sport professionistico è a tutti gli effetti una branca privatistica dell’economia nazionale e non un bene comune. Lungi da me ignorare la valenza sociale dello sport, sia praticato che visto, ma mi perdonerete se non ravviso un interesse collettivo (nel senso proprio) in un prodotto che viene liberamente venduto e consumato.

Forse allora sarebbe il caso di costruire un sistema davvero al passo con il nuovo millennio. A trent’anni dalla famosa (o famigerata ?) legge 91 sarebbe anche ora. Magari senza aspettare la politica ma prendendosi, dall’interno, qualche responsabilità…

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