L’accusa? Aver rubato una televisione da uno store a Croydon, una settimana fa. Tutto «normale», vista la settimana di fuoco che Londra ha vissuto. Se non fosse che Laura Foley, 22 anni, è la sorella di una agente di polizia e figlia di una operatrice del 999, il centralino delle emergenze nell’area metropolitana. Ora, in attesa del processo, dovrà restare in casa dalle 9 di sera alle 7 del mattino e avrà l’obbligo di firma. Ecco una delle tante storie degli incappucciati che hanno trasformato la Gran Bretagna in un terreno di battaglia.

Adesso che la conta ha raggiunto le 1700 persone arrestate e le oltre 1000 incriminate, si viene a scoprire che un fermato su quattro appartiene a una gang, fenomeno prettamente britannico e contro il quale la polizia lotta da anni se non decenni. Poi, chiaramente, ci sono quelli che si sono accodati, come il 16enne arrestato per aver rubato una Redbull o la 17enne che è stata messa in carcere per una bottiglietta d’acqua. I tribunali hanno smesso di lavorare 24 ore su 24, come avveniva durante i primi giorni dei riots, ma comunque la mole di pratiche da sbrigare è ancora enorme.

Due figure di spicco della giustizia britannica nelle scorse ore sono intervenute sulla questione. Se il primo ministro David Cameron ha auspicato anche ieri «sentenze esemplari», due lord – Alex Carlile e Ken Macdonald, avvocati – hanno chiesto invece pronunce più «proporzionate e umane». Dopo gli eccessi della criminalità, ora la società britannica teme gli eccessi della giustizia. E di certo i sei mesi di carcere dati per un furto di birra del valore totale di 3,5 sterline non hanno placato le tensioni fra giustizialisti e garantisti.

Il punto chiave ora è se gli arresti possano garantire minori tensioni sociali. Le associazioni per i diritti umani e civili pensano che i fermi non facciano altro che accentuarle, mentre chi lavora nella giustizia teme le centinaia di appelli che sommergeranno i tribunali del Regno Unito, bloccandone o almeno rallentandone i lavori. Di sicuro ricorreranno all’appello anche i due giovani condannati ieri a quattro anni di carcere per aver incitato alle rivolte usando il social network Facebook. Anche altri casi del genere sono sotto indagine in tutto il Paese, mentre c’è chi si interroga sulla libertà di espressione. Può una frase postata su Facebook costituire reato?

Ora anche qualcuno che è stato colpito da incendi e saccheggi chiede un approccio della giustizia più «umano». Come un cittadino di origine straniera di Tottenham, Mohamed Hammoudan, che ha perso la casa e ogni suo avere in un rogo, e che ora dice che il carcere «non è una coperta per coprire le ingiustizie sociali». Chi vive nelle periferie londinesi, del resto, non può non entrare a contatto con povertà, privazioni ed esclusione. Farsi un’idea sulle vicende però non è facile e fra gli abitanti della metropoli inglese la rabbia per una criminalità che ha colpito a casaccio è ancora tanta. La società britannica si interroga, chi può ricostruisce case e negozi sperando che tutto questo non succeda mai più, i tabloid di destra lanciano appelli per una giustizia più severa, giornali come il Guardian accusano i giudici di zelo eccessivo. Le prossime settimane saranno sicuramente infuocate, almeno sul fronte del dibattito.

di Matteo Impera

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