Ha guidato una preghiera collettiva a Houston, sabato scorso, davanti a 30 mila persone, per chiedere a Dio di “fermare il declino degli Stati Uniti”. Ritiene che Bush sia stato un presidente “troppo liberal”, e che gli Stati Uniti siano finiti nelle mani di un “oppressivo e rapace governo centrale”. Chiede tagli radicali alla spesa sanitaria, a quella per l’educazione e l’ambiente (oltre alla chiusura dei ministeri dell’educazione e dell’energia). Arriva a pensare che il divieto di inviare messaggi col cellulare, mentre si guida, sia “un’intollerabile intromissione” del governo nelle vite dei cittadini. E’, ovviamente, contrario all’aborto, ai matrimoni gay, e il suo libro-pensiero di chiama Fed Up!, a indicare l’esasperazione dell’americano medio verso Washington e la politica. Il suo nome è Rick Perry, 61 anni, governatore repubblicano del Texas. L’ultimo, in ordine di tempo, ad annunciare la candidatura alla presidenza degli Stati Uniti.

L’annuncio della discesa in campo di Perry non ha sorpreso nessuno. Da tempo si sapeva che il vulcanico politico texano era pronto a sfidare Mitt Romney, Jon Huntsman, Michele Bachmann e gli altri repubblicani nell’assalto a Barack Obama. La sua candidatura è però un fatto importante, per la caratura del personaggio e lo scompiglio che crea nel campo repubblicano. Perry è in grado di sottrarre voti alla Bachmann e a Tim Pawlenty, sino a ora “favoriti” del Tea Party e dei conservatori religiosi d’America. Ma Perry è particolarmente temuto da Romney e Huntsman, che erano riusciti a posizionarsi come businessmen capaci, vicini a Wall Street, e che ora si sentono minacciati da chi, come governatore, ha davvero ottenuto risultati importanti, creando posti di lavoro, tagliando il debito, facendo del Texas la locomotiva economica d’America.

Non è un politico facile da incasellare, Rick Perry. Ex-democratico, divenuto uno tra i più furibondi conservatori d’America. Figlio del Texas più povero, trasformato in una macchina perfetta al servizio del capitalismo liberista. Alcuni lo considerano un politico geniale, capace come nessun altro di fiutare l’aria e di ribaltare a suo favore le situazioni più difficili. Succeduto a George W. Bush, come governatore del Texas, riuscì a vincere la rielezione dipingendo la sua sfidante, una senatrice repubblicana, come una “succhiatrice di tasse”. Il crimine della poveretta era stato quello di aver drenato verso il Texas ingenti finanziamenti federali. Per altri, Rick Perry è poco più che un dumb ass, un povero imbecille, miracolato da un concorso di circostanze totalmente al di fuori del suo controllo.

“E’ il politico più fortunato sulla faccia della Terra”, spiega Chris Bell, suo antico avversario, che cita a sostegno dell’affermazione le circostanze dell’affermazione di Perry. Fu Karl Rove a curarne nel 1998 l’ascesa nella grande politica, per superare un’impasse interna al partito repubblicano del Texas. Diventato vice di Bush, allora governatore dello Stato, Perry gli succedette dopo le presidenziali del 2000. Da allora, nonostante crisi, apparenti debolezze, difficoltà, Perry è sempre stato rieletto, diventando uno dei politici più influenti d’America. Se le condizioni esterne possono averlo aiutato, una parte importante del suo successo dipende comunque dalla tenacia dimostrata in questi anni.

Le origini di Perry sono umili. Il padre era un coltivatore di cotone, e nella casa di famiglia, in un’area povera del Texas del nord, non c’era nemmeno l’acqua corrente. La madre, quando Perry frequentava il college (non un college importante, di quelli del New England), gli mandava biancheria intima cucita a mano. Dopo un servizio militare di cinque anni, come pilota, Perry sceglie la politica. Diventa deputato dello Stato. Il suo partito, allora, era però quello democratico, e il suo riferimento l’ala ambientalista del partito, quella facente capo ad Al Gore. E’ solo nel 1998 che Perry, fiutando il cambio di rotta nella politica americana, comincia una lenta svolta a destra, sotto l’ala protettrice di Rove, che lo porterà a diventare il braccio destro di Bush junior. In poco più di dieci anni, Perry è diventato uno dei politici più reazionari d’America. La sua cura, per l’economia texana, è stata drastica. Il pareggio di bilancio è arrivato a spese di anziani, giovani, malati. Perry ha tagliato 15 miliardi di spesa sociale (4 miliardi di tagli riguardano l’istruzione). Centinaia di insegnanti sono stati licenziati, i servizi sanitari drasticamente ridotti. La decisa cura liberista, i tagli alle tasse, hanno attratto investimenti da molte zone d’America. Il 40% dei posti di lavoro creati negli USA, dalla fine della recessione, sono texani (gli avversari sostengono però che gran parte di questi sono mal pagati e altamente volatili). Perry si è così rappresentato come un politico lontano “dai poteri più radicati di Washington, capace di restaurare il corretto equilibrio tra stati e governo federale” (sono sue parole, al recente rally religioso di Houston).

Il cocktail di localismo, liberismo, avversione al governo centrale, impeto religioso, conservatorismo sociale, ha fatto di Perry uno dei contendenti repubblicani alle presidenziali 2012. I suoi avversari democratici sono ora divisi tra un sentimento di soddisfazione e un senso di vaga inquietudine. Da un lato, Perry pare troppo conservatore per conquistare il voto degli indipendenti e costituire una vera minaccia a Barack Obama. Il periodo è però gramo: disoccupazione sopra il 9%; sfiducia nelle capacità dell’amministrazione di gestire l’economia; dubbi sul ruolo internazionale degli Stati Uniti. Circostanze che potrebbero diventare, ancora una volta, le condizioni ideali per Rick Perry, “il più fortunato politico sulla faccia della Terra”.

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