In questa estate di riletture (tra gli altri Tondelli, Wallace, Nabokov) in cui ho cercato di riaccordare alcuni tra gli infiniti rivoli letterari nei quali mi ero disperso, mi sono imbattuto nella notizia di una riscrittura. Non sto parlando di una riscrittura qualsiasi, direi piuttosto di una riscrittura eccellente, ossia del romanzo italiano contemporaneo forse più popolare nel mondo: Il nome della rosa di Umberto Eco. A riferirlo è stata la stessa casa editrice, Bompiani, che lo pubblicò per la prima volta nel 1980, che in un comunicato del mese scorso, tra le altre cose, ha fornito una data per il rilascio nelle librerie della nuova versione del famoso thriller medievale: il 5 ottobre.

Ma in che consiste, di fatto, la rielaborazione de Il nome della rosa? L’editore parla di una versione del testo “più accessibile ai nuovi lettori”, il che va tradotto probabilmente in una semplificazione del linguaggio e dei passaggi più ardui della trama.

Fenomeno non nuovo, per la verità, questo delle riscritture, seppure, a mio modo di vedere, non del tutto comprensibile, a meno che non si ragioni entro logiche di ordine commerciale (onestamente faccio fatica a immaginare che la natura delle pulsioni che hanno mosso il professor Eco sia tanto grossolana).

Va detto che lo scrittore – non Eco, ma in generale la “specie antropologica” degli scrittori – è l’essere più incontentabile sulla faccia della terra, e anche quello che più di tutti si misura continuamente con se stesso. E in questa perenne disputa autoreferenziale entrano in gioco due elementi critici. Il primo: credo che nessun autore al mondo sia mai pienamente appagato dal proprio testo, neppure quando questo (come nel caso de Il nome della rosa) ha venduto trenta milioni di copie nel mondo ed è stato inserito da Le Monde tra i “cento libri più rappresentativi” del ventesimo secolo. Il secondo (intimamente connesso al primo): questo status di frustrazione che l’autore matura nei confronti della propria opera tende ad accrescersi col passare degli anni, la distanza storica ne acuisce quelli che l’autore percepisce come “difetti” e il variare delle epoche, delle mode e dei linguaggi finisce per affossare l’opera nelle sabbie mobili del passato.

Discorso oggettivamente valido per buona parte dei prodotti della letteratura universale, al quale sfuggono tuttavia quei libri che un insieme di fattori (successo, critica, capacità di decodificazione della Storia) vengono definiti come “capolavori”.

Ma anche gli inventori di questi imperituri angeli letterari, se potessero, riscriverebbero continuamente i loro capolavori. È un impulso autolesionista, diciamolo, molto simile a quello che anima certe signore afflitte da un desiderio continuo di perfezione, e incapaci di accettare la fugacità della bellezza, le quali ripetutamente ricorrono alla chirurgia plastica, fino a trasfigurarsi in creature deformi di originale bruttezza.

Quando lo scrittore, quindi, cede alla tentazione del “ritocchino”, seppure lo faccia in buona fede, per una sincera volontà di rinfrescare la propria opera, di restituirla a un pubblico nuovo e fatalmente diverso da quello che trent’anni prima ne aveva decretato un indiscutibile successo planetario, in realtà non fa altro che snaturare un’opera il cui valore intrinseco dipende anche dall’essere il prodotto non solo di una mente creativa, ma anche di un’epoca culturale, di un linguaggio, di una temperie.

Non diciamo allora che Umberto Eco, da maestro di lungimiranza (e di tanto altro) quale è, ha voluto adeguare il suo romanzo alla nostra epoca digitalizzata e veloce per venire incontro ai gusti dei lettori del nuovo millennio (o, come invece è apparso allo scrittore e critico francese Pierre Assouline su Le Monde, un tentativo di venire incontro a una generazione culturalmente inferiore). Diciamo pure che Eco ha peccato di quel vizio umanissimo che affligge gli artisti di ogni epoca, quello di preservare la propria opera dalle corrosioni del tempo per renderla immortale. Tanto, ci scommetto, la versione de Il nome della rosa che appassionerà i lettori fra cent’anni non sarà quella riveduta e corretta dell’ottobre del 2011, e neppure le eventuali versioni del futuro (se nel frattempo ci saranno state altre trasformazioni radicali come la rivoluzione digitale). Ma più semplicemente quella originale, tortuosa, complessa e bellissima del 1980.

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