Barbara Montereale (quella dello scandalo Tarantini) campeggia compiaciuta sull’affissione 6×3 mentre il titolo recita “E tu dove glielo metteresti?”. Gratuita come intenzione ma ancora più gratuito presumere che il pubblico, cui ci si rivolge con “E tu“, sia necessariamente complice e condivida questa intenzione. Grazie a Internet è subito scandalo nazionale, pur trattandosi di un’affissione locale.

Poco importa che Michele Emiliano, il sindaco di Bari, abbia disposto la rimozione immediata delle affissioni firmate dalla catena di negozi «Giallo oro» e comparse sabato – dovrebbero essere state rimosse teoricamente ieri, chiediamo agli amici baresi se poi è stato fatto veramente – tanto ormai l’obiettivo era stato raggiunto. In tempi di crisi economica, molti imprenditori hanno l’idea balzana di riuscire ad ottenere ugualmente un grande risultato investendo di meno (e poi diciamocelo, “lo sparambio è già un guadambio!“).

In fondo che ci vuole, basta solo urlare di più, magari con un messaggio volgare, che “buca”, che si fa vedere. “E che cos’è la pubblicità se non attirare l’attenzione?“, concludono con sufficienza col tono di chi vuole insegnarti il tuo mestiere. Queste persone non si rendono conto del fatto che la pubblicità non è la versione moderna delle urla da mercato, ma informazione per il consumatore. Perlomeno è così quella fatta bene. Invece, dopo aver avuto questo “colpo di genio”, non sentono più ragioni: tutte le spiegazioni sul numero minimo di uscite che garantirebbe una visibilità evitando di bruciare l’investimento, e tutti i tentativi di spiegar loro le motivazioni di un messaggio corretto sì, ma “troppo, come dire… normale“, appaiono improvvisamente come strategie per estorcere loro dei soldi, anzi per far credere che i pubblicitari siano indispensabili.

È pur vero che la qualità professionale del lavoro prodotto dalle agenzie oggi è spesso vergognosa, ma quello è un discorso più lungo, magari ci tornerò sopra in un’altra occasione. Posso solo annotare di essere stato il primo in Italia, in tempi non sospetti, a invitare al boicottaggio dei prodotti che con la loro pubblicità offendono l’intelligenza dei consumatori: basterebbe già questo per dare una raddrizzata alle aziende (e anche ai pubblicitari).

Ma intanto i nostri imprenditori hanno deciso di uscire dalla responsabilità sociale dell’azienda e di entrare nel regno meraviglioso della creatività auto prodotta dove sembra che non esistano regole. E come procedono? Cominciano a cercare un’idea “che faccia casino” e, nella loro ignoranza, la prima cosa che gli viene in mente è un gioco di parole idiota (“In fondo i pubblicitari non usano tutti quei giochi di parole?“) oppure una barzelletta volgare da cui estraggono la battuta finale pensando che “quella se la ricordano tutti” e quindi aiuta a memorizzare il prodotto. E il gioco è fatto. Visto? Che ci vuole?

Ma la malafede di queste persone non è tanto qui. È nel fatto che sanno benissimo quello che stanno facendo, sanno che una pubblicità del genere viene segnalata ed eventualmente rimossa (dal Giurì se è a livello nazionale, da un magistrato o dalle autorità cittadine se è a livello locale). E questo è più che sufficiente per finire sui giornali. A completare l’opera ci penseranno poi i giornalisti che contribuiranno indirettamente facendo il solito ed inutile rumore su nulla. “Come sarebbe a dire nulla?“, esclama a questo punto il moralista nostrano inalberandosi, “Qui si offende la dignità della donna!“. E questa ipocrita sceneggiata si ripete ogni volta come se fosse la prima volta. Ma i “creativi” che hanno firmato l’affissione uscita a Bari non sono affatto i primi.

Ricordiamo alcuni casi emblematici. Ad esempio il capolavoro di quella ditta siciliana che recentemente ha pubblicizzato il proprio servizio per il montaggio di pannelli fotovoltaici mettendo una modella in una posizione nella quale sarebbe difficile montare perfino due mattoncini Lego, ma dando al verbo “montare” tutt’altra accezione. Oppure la pubblicità dei traghetti della compagnia Ttt Lines che equivoca tra navi e modelle che salgono a bordo con la sapida headlineAbbiamo le poppe più famose d’Italia“. Qualcuno dirà che si tratta di fenomeni circoscrivibili al meridione con la sua arretratezza culturale. E invece no, guardate che cosa propone questa affissione comparsa nel profondo Nord Est e firmata da un negozio di occhiali da vista che, in quanto a creatività, si è dimostrato piuttosto miope: non è certo con un’insulsa battutina che si ottiene la fiducia del consumatore.

Ma voi pensate che esista un limite al peggio. No, non esiste. Andando oltre a quello che avete visto fin qui si entra nel territorio della violenza, come nel caso del Latte Zappalà dove c’è un riferimento diretto a pratiche erotiche in cui la donna è trattata poco meno che come un accessorio, coerentemente con il diffuso livello di immaturità relazionale del maschio medio italiano, incapace di andare oltre una concezione masturbatoria della sessualità.

E dunque, per rispondere al moralista che prima si era indignato per l’affissione di Bari mi domando che cosa ci si aspetti di diverso da un Paese come il nostro, dove il sessismo e il maschilismo sono parte integrante della cultura comune e il clima di destra non fa che ravvivarli. Non ci si deve stupire se perfino un marchio forte come Dolce&Gabbana, che investe molto in comunicazione (e quindi avrebbe tutti i mezzi per fare della pubblicità di qualità) scivoli anch’esso sulla tentazione di fare l’occhiolino al maschilismo più fascista inscenando, in una recente campagna, uno stupro di gruppo.

Può anche darsi che, avendo raccolto nel tempo confidenze di tante donne, i due stilisti abbiano voluto visualizzare il sogno erotico femminile più ricorrente nella nostra epoca di repressione sessuale, e cioè quello di essere al centro dell’attenzione di tanti maschi e venire possedute da loro. Ma dar fiato alla repressione sessuale equivale al fascismo in pubblicità. Se oggi nessuno si preoccupa più di dare un senso alla pubblicità che cosa ne rimane?

Se l’è chiesto Paola Panarese nel suo recente e ottimo saggio “Quel che resta della pubblicità“. Le hanno risposto i più grandi esperti italiani. Consigliamo la lettura di questo libro ai titolari di quelle oscure botteghe che, con un teppismo paragonabile soltanto a quello degli imbrattatori di muri, stanno distruggendo quel poco di fiducia che il pubblico ancora riponeva nella comunicazione, dando allo stesso tempo il colpo di grazia definitivo alla pubblicità.

Articolo Precedente

Quel che Tremonti non dice (e nessuno chiede)

next
Articolo Successivo

Voglio meno Avetrana e più rivoluzione islandese

next