Mentre sfogliavo il Time on line mi ha colpito una foto in particolare (pubblicata anche dal Washington Times), che immortala la gioia delle calciatrici giapponesi, vincitrici del mondiale femminile tenutosi in Germania.

Certo, tutta la retorica è permessa, trattandosi di una squadra femminile, di una squadra di calcio femminile, di una squadra giapponese… Si potrebbe continuare ancora un po’, cucendo assieme tutte le belle parole che il caso comporta: forza, coraggio, tenacia, voglia di sopravvivere, di vincere, nonostante il terremoto e lo tsunami, gioco di cuore, riscatto di una nazione (le giocatrici sono state motivate attraverso la visione continua delle devastazioni dell’unici marzo scorso, ha detto l’allenatore), e così via. E per giunta giocavano contro gli Usa, con tanto di  iconografica Obama family immortalata nel salotto di casa tra pop corn e aranciate a fare tifo – un po’ tiepido direi, viste le facce – per le atlete americane, peraltro abbastanza scornate, in quanto erano le favorite.

Le parole e la retorica si sono sprecate anche sui siti internazionali: è parso impossibile che una nazionale di ‘piccolette’ (troppo vecchie, troppo minute, troppo inesperte, hanno detto) avesse sconfitto le gigantesse svedesi e americane. Tutti increduli a cercare di capire come forza e possanza siano state sopraffatte da piccole fate sempre in corsa.

Una frase per tutte, profferita dall’allenatore nipponico Sasaki, è stata rivelatrice: “Quando le Americane segnano un goal, si fermano.” In altre parole, significa che le giapponesine sono state più attente e furbe e non si sono concesse neanche un secondo per godere del vantaggio. Per amore della verità, il match si è definito solo ai rigori e il reporter del Nyt ha avuto la faccia tosta di dire che è stato indubbiamente più entusiasmante della finale tra Italia e Francia del 2006, ma sol perché in finale c’erano gli Usa (il calcio statunitense maschile è quel che è), diciamoglielo.

In ogni caso, tutti hanno cercato di dare una spiegazione motivazionale, di come una tragedia possa canalizzare in rivincita la rabbia e la disperazione, più che sottolineare le differenze o le defaillances tattiche, atletiche e/o fisiche. I giapponesi sono maestri in questo, anche le loro arti marziali si fondano su questo principio di diversione dell’energia. Altri ancora, hanno parlato di resilienza di un popolo.

Vabbe’, la foto di cui vi dicevo. Mi ci sono soffermata: sembrano semplicemente ragazzine felici, spero lontane da quell’ambaradan mediatico e danaroso (e marioleggiante) che è il calcio come lo abbiamo visto negli ultimi tempi. Mi sono sembrate delle adolescenti (anche se non lo sono anagraficamente, anzi) che hanno giocato per divertirsi (mi pare pure di aver letto che non sono giocatrici professioniste), magari più per sfidare se stesse ed i pregiudizi che per battere le svedesi o le americane.

I loro visi e i loro sorrisi mi hanno fatto riflettere sull’incredulità che spesso prende le donne quando vincono qualcosa, come a dire ‘ma davvero?’

Certo, mi hanno fatto tenerezza, ma non solo per l’effetto-riscatto che si può banalmente evidenziare (le hanno chiamate Cenerentole, perché hanno storie di povertà alle spalle), bensì per la pura gioia che – a mio parere – la foto ha trasmesso. Mi sono chiesta se non sia (e quanto sia) vulnerabile questo tipo di gioia, se sia ancora possibile, fuori dall’infanzia. O se le donne normali (non quelle dello show-biz, né della politica nè le manager) possano ancora mischiare ingenuità, incredulità e passione trasformandole in gioia. Questo è stato per me quello che un bravo scrittore chiama ‘momenti di trascurabile felicità’. E mi è piaciuto.

(Come al solito, sine praeiudicio melioris sententiae, ovvero ogni altra opinione sarà la benvenuta, se porta con garbo ed educazione. Siamo qui per confrontarci nel rispetto, non per scannarci, no?)

di Marika Borrelli

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