Le società statunitensi non operanti nel settore finanziario detengono all’estero dai 500 ai 700 miliardi di dollari di liquidità, vale a dire circa la metà della disponibilità totale a bilancio che ammonterebbe, alla fine del 2010, a 1.240 miliardi. Lo rende noto una ricerca dell’agenzia di rating Moody’s ripresa oggi dalla stampa britannica e statunitense. Un dato impressionante, per almeno due motivi: in primo luogo, rileva l’agenzia, la cifra identifica un aumento dell’11,2 per cento rispetto all’anno precedente; in secondo luogo, l’ammontare totale detenuto all’estero evidenzia il peso di un enorme capitale sottratto tanto a un’economia interna non ancora guarita dalla crisi, quanto al fisco. Ovvero, in quest’ultimo caso, alla voce entrate statali e ai suoi corollari di “debito” e “spesa sociale”.

La pubblicazione del dato, che giunge proprio in uno dei momenti più difficili per le finanze statali Usa, rilancia implicitamente il dibattito sulla fiscalità delle imprese. Un problema tuttora irrisolto. La liquidità estera comprende infatti i profitti realizzati dalle sussidiare estere che, va detto, non sono tassati fino a quando non sono rimpatriati. In questo caso, l’aliquota ammonterebbe al 35 per cento, un livello sufficientemente alto da sconsigliare alle compagnie un trasferimento della liquidità alla casa madre o comunque alle filiali statunitensi. Nel 2004, ricorda il Financial Times, alcuni esponenti politici avanzarono una proposta di introduzione di una cosiddetta “tax holiday” che avrebbe consentito alle aziende di ottenere uno sconto sui capitali rimpatriati. Il piano fu però bocciato di fronte all’ipotesi che questa sorta di happy hour fiscale avrebbe favorito l’aumento dei dividendi distribuiti agli azionisti ma non una crescita degli investimenti domestici e la conseguente creazione di nuovi posti di lavoro.

Dal 2004 a oggi, ovviamente, la situazione è profondamente cambiata. Gli Stati Uniti, come detto, scontano ancora gli effetti della crisi tuttora presente nel mercato immobiliare. Un dato su tutti: Bank of America, a oggi, si troverebbe in possesso di un così grande numero di case pignorate e abbandonate che avrebbe deciso, in molti casi, di regalarle o demolirle piuttosto che continuare a sostenerne i costi di mantenimento. Un segnale delle persistenti difficoltà che ancora caratterizzano un settore chiave del sistema economico. Negli Usa ci sarebbero oggi oltre 1,6 milioni di abitazioni riacquisite dalle banche, il che implica l’esistenza di 1,6 milioni di famiglie che hanno perso l’alloggio di proprietà nonché la presenza di un eccesso di offerta che spinge al ribasso i prezzi di mercato e, con essi, i bilanci bancari degli istituti che hanno in pancia assets svalutati. Se il rientro dei capitali si traducesse anche solo in parte in un rilancio degli investimenti, è lecito credere che la disoccupazione potrebbe diminuire facendo aumentare il potere d’acquisto dei lavoratori reintegrati nel mercato e riducendo la voce sussidi nel computo della spesa pubblica.

Ed è proprio sulla spesa pubblica, ovviamente, che si gioca in questi giorni la battaglia più importante. Democratici e repubblicani non hanno ancora raggiunto un’intesa per l’aumento del tetto del debito. Il che significa che allo stato attuale gli Stati Uniti non possono ricorrere al mercato obbligazionario per rifinanziare il debito stesso. E visto che nuovi soldi non ce ne sono ecco che in assenza di un accordo il Paese sarebbe chiamato ad affrontare le conseguenze di un default sui titoli (non ci sono abbastanza soldi per rimborsarli) e di una clamorosa politica di tagli alla spesa e al welfare. Ora, verrebbe da chiedersi, cosa cambierebbe se la Apple decidesse di riportare negli Usa quei 46,7 miliardi di liquidità (su un totale di 76,2 miliardi) detenuta all’estero? E se la sua concorrente Microsoft facesse lo stesso con i suoi 42 (su un totale di 50,2)? Quanto ne beneficerebbero le casse pubbliche?

Qualcuno potrebbe provare anche a fare una stima. Ma sarebbe un esercizio velleitario. La verità è che allo stato attuale della legislazione, una corporation ha la possibilità di sottrarre al fisco profitti miliardari pagando, di fatto, un’aliquota reale ridicola. Gli esempi non mancano, anche in Europa dove l’elusione fiscale è di casa da tempo. Si trasferiscono marchi e proprietà intellettuali, si spostano profitti da una filiale all’altra e si sfruttano le pieghe di leggi ormai inadeguate. Ed ecco il paradosso: siccome è tutto legale lo Stato non può farci nulla. A differenza degli evasori, che ogni tanto sono individuati e sanzionati oppure amnistiati ma per questo costretti a restituire in buona parte il maltolto (per lo meno nel resto del mondo, non in Italia dove l’aliquota massima dell’ultimo scudo è stata pari al 7 per cento), gli “elusori” possono continuare a tenere i loro profitti al riparo da ogni tassazione. Anche e soprattutto di questi tempi in cui, a sostenere il debito pubblico, dovrà pensarci ancora una volta qualcun altro.

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