L’Italia, tra le tante contraddizioni che la affliggono in questa fase storica, ne deve scontare una in più: è un Paese che fa sempre più ridere ma che non è più capace di arrossire. La nostra classe politica è ormai completamente screditata. Essendo un manipolo di cooptati e non di eletti, è composta per lo più da persone incompetenti, corrotte, egoiste, avulse dalla realtà e insensibili ai bisogni dei cittadini. Ma, in questo, non sarebbero poi molto diversi da tanti altri che li hanno preceduti e che hanno trovato la loro fine nello scandalo di Tangentopoli, scontando il malcostume sulla pubblica gogna o direttamente in carcere.

Oggi, però, si è aggiunta una nuova caratteristica all’elenco di qualità sopra elencate: una assoluta, esibita, a volte addirittura rivendicata, mancanza di rispetto per il proprio ruolo istituzionale e per le istituzioni nel loro insieme. Sempre più spesso si assiste a ministri, sottosegretari, deputati e senatori che si lasciano andare a reazione scomposte e aggressive, che sarebbero state intollerabili soltanto quindici anni fa. C’è l’imbarazzo della scelta, al punto che è possibile individuare alcuni macrogruppi, elencandoli a caso perché si tratta di comportamenti ugualmente riprovevoli.

1) Quelli del non ti rispondo: gli ultimi casi annoverano la perfomance del ministro Brunetta, che scappa di fronte a un gruppo di precari dell’amministrazione; la presidente Polverini che evita di spiegare nel merito il suo utilizzo di un elicottero della Protezione Civile per recarsi alla Festa del peperoncino; la ministra Brambilla che gira i tacchi appena le chiedono se non ravvisi un conflitto di interessi nell’aver fatto assumere il suo compagno in un ente che dipende dal Ministero del Turismo.

2) Quelli dell’insulto pedagogico: qui le perfomance sarebbero talmente tante che è impossibile annoverarle tutte. Si va dal “cogl…” di Berlusconi rivolto agli elettori di sinistra,  ai “fannulloni” di Brunetta (che però detiene anche il copyright per “Voi siete l’Italia peggiore” diretto ai precari), alla ormai mitica perfomance della Polverini a Genzano (e al suo urlo di guerra “Questa è la democrazia, fattene una c… di ragione!”), alla recente inaugurazione dei Ministeri del Nord in cui Bossi ha rivolto due saluti molto istituzionali ai presenti, nell’ordine “Fan…” e “Cornuti” (vedi sopra).

3) Quelli del dito medio: qui, nonostante il timido tentativo di emulazione del sottosegretario Santanchè, il primato spetta sempre al senatur che è stato condizionato meglio di un cane di Pavlov, al punto che gli scatta il dito medio appena sente la parola “tricolore”.

Insomma, gli esempi sono talmente tanti che viene il sospetto che siano in realtà sintomi di un paradigma comportamentale. In tutte le epoche di transizione si assiste a un fenomeno ricorrente: da una parte aumentano le spinte al cambiamento, dall’altra si fanno sempre più disperati i tentativi di difendere lo status quo, l’ordine costituito, da chi detiene il potere. Ovvero da chi non si fa agente di cambiamento, ma verrebbe dal cambiamento travolto e spazzato via. La nostra classe politica si trova esattamente in questa fase, in cui i cittadini sono diventati non qualcuno da difendere, ma qualcuno da cui difendersi. Questo farebbe dei nostri politici figure tragiche, se la ricorrenza delle loro reazioni violente e imbarazzanti non li rendesse allo stesso tempo involontariamente comici.

Il filosofo e psicologo Henri Bergson, nel suo saggio Il riso, affermava che il comico nasce da un irrigidimento contro la vita sociale. Ovvero da una serie di atteggiamenti automatici, meccanici, robotici che vengono costantemente ripetuti e che stridono rispetto alla natura fluida, plastica, mutevole della realtà in cui si inseriscono. Il comico sarebbe una “meccanicità placcata sulla vita” di cui il riso vuole essere il castigo. Ma il  riso può diventare un castigo soltanto se, dall’altra parte, c’è qualcuno disposto ad arrossire.

Ora, ci vorrebbe un altro saggio, per indagare davvero i motivi per cui i nostri governanti hanno smarrito il proprio senso del pudore e della dignità. Perché si dimostrano incapaci di incarnare con rispetto e decoro il ruolo istituzionale che è stato loro attribuito. Le risposte potrebbero essere tante (o magari una sola: “berlusconismo”). Quale che sia la ragione, però, da tutto ciò possiamo trarre almeno un insegnamento. Se vogliamo essere migliori di loro e sperare in un futuro diverso, dobbiamo proteggere ciò che apparentemente ci rende più deboli e vulnerabili. La nostra capacità di provare vergogna, per noi stessi e anche per loro.

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