Scavando buche nella sabbia potete, se volete, dedicarvi al più concreto dei mestieri: costruire, con l’immaginazione in vostro potere, castelli di sabbia, lontani dall’insana idea di dedicarvi all’accumulo di inutili denari sprecandoli poi per costruire mausolei o gallerie sotterranee come un novello Fantômas. Vi ricordate quel pazzo criminale, lui coraggiosamente senza capelli, che ci faceva scompisciare dalle risate nella lotta con l’esilarante francesissimo commissario Louis de Funès?

Eh! Bei tempi, dove noi e i Galli gareggiavamo con campioni in tornei ben diversi dalla pochezza odierna, dove la sciatteria ormai inquina anime e territori.

Scavando buche, un po’ più lontane dai bagnasciuga dei nostri mari, e tralasciando i magnifici castelli di sabbia, non visti dagli adulti, che fingevano di non vederci, facevamo, in altri tempi, delle buche per farci poi un fuoco con gli sterpi e i legni portati dalle mareggiate invernali. Le ore passavano sotto cieli stellati e bagnati da quella grondante Via lattea che tutt’ora mi stordisce ogni qual volta, magari nei pressi della notte di San Lorenzo, mi metto mano nella mano con la mia vita nell’attesa condivisa delle luminose cadute.

Ma in quelle buche, sopiti i fuochi e piene di braci, a metà anni ’60, mettevamo patate appena sterrate dagli orti paterni su un primo strato di sabbia che le proteggeva dai carboni e poi le insabbiavamo totalmente. Andavamo così a dormire per ritrovarsi la mattina successiva, dopo il primo bagno, magari con l’amico Michel, a dissotterrarle trovandole cotte e calde al punto giusto. Sale rubato sugli scogli, la perenne fame e i brividi per quei mattutini bagni, toccati dal primo fresco maestralino, facevano di quelle patate, le patate più bune del mondo (ricetta ripetibile in tutti i mari e con tutte le sabbie del mondo, sempre però non visti dagli adulti). Da lì a poco, io e Michel, avremo urlato insieme “La Révolution n’est qu’un début. Continuons le combat!”.

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