Confermando la sua tempra di responsabile ed in perfetta coerenza con le reazioni di stupore per la nota “inesatta” del Quirinale che al momento della formalizzazione della sua nomina a ministro, aveva espresso “forti dubbi”, Saverio Romano ora rinviato a giudizio per concorso in associazione mafiosa, non è nemmeno sfiorato dall’idea di dimettersi.

Al tempo della nomina lo scorso marzo, dettata dall’urgenza di Berlusconi di garantirsi con un cadeau sostanzioso la fedeltà del capo dei responsabili, il presidente della Repubblica aveva espresso con una nota ufficiale le sue perplessità e la volontà di “assumere informazioni” sui procedimenti in cui Romano era inquisito per concorso in associazione mafiosa e corruzione con l’aggravante del metodo mafioso. E cioè due reati non propriamente bagatellari, tanto che il Gip non aveva accolto la richiesta di archiviazione e aveva rimandato la decisione alle settimane successive.

Il Capo dello Stato dopo quella nota grave e senza precedenti aveva poi proceduto alla nomina di Romano “non ravvisando impedimenti giuridico-formali”, ed auspicando che gli sviluppi del procedimento chiariscano al più presto l’effettiva posizione del ministro. A pochi mesi di distanza possiamo vedere che la posizione processuale del ministro Romano si è alquanto chiarita: infatti le ragioni di “mera opportunità” che avevano destato i dubbi del Capo dello Stato si sono trasformate in fondate motivazioni per le sue immediate dimissioni da una carica che non avrebbe mai dovuto ricoprire, richieste al momento, incredibilemente, solo dall’Idv.

Altro che problema “solo legato a lungaggini nell’archiviazione” come aveva sentenziato al momento della nomina il ministro della Difesa La Russa, o alla “terminologia inopportuna dell’estensore della nota” che secondo il diretto interessato “non rifletteva il pensiero del capo dello Stato”.

Il Pm Nino Di Matteo e l’aggiunto Ignazio De Francisci dopo la decisione del Gip di Palermo di rigettare l’iniziale istanza di archiviazione, hanno depositato la richiesta di rinvio a giudizio per l’attuale ministro già definito dal mafioso favoreggiatore di Bernardo Provenzano e poi pentito Francesco Campanella, “persona a disposizione” e votato dai boss di Villabate Nicola e Nino Mandalà. Nella richiesta i magistrati scrivono testualmente che nella sua qualità di “esponente politico di spicco, prima della Dc e poi del Ccd e del Ddu e, dopo il 13 maggio 2001, di parlamentare nazionale, Romano avrebbe consapevolmente e fattivamente contribuito al sostegno e al rafforzamento dell’associazione mafiosa, intrattenendo rapporti diretti o mediati con numerosi esponenti di spicco dell’organizzazione tra i quali Angelo Siino, Giuseppe Guttadauro, Domenico Miceli, Antonino Mandalà e Francesco Campanella”.

Un ministro della Repubblica che in sintesi sarebbe stato al servizio della famiglia mafiosa di Villabate, un comune commissariato per mafia nel 2004, laboratorio e ganglio della sinergia tra colletti bianchi, politica e vertici mafiosi penetrati capillarmente nella società civile e nella borghesia imprenditoriale, tanto da insinuarsi persino nelle iniziative dell’antimafia.

Basta solo soffermarsi su qualcuno dei nomi degli esponenti dell’organizzazione di cui Romano avrebbe “assecondato le richieste” a cominciare da Nino Mandalà, avvocato, già amico e socio di Enrico La Loggia e di Renato Schifani nella Sicula Brokers insieme a Benny D’Agostino, altro mafioso di rango, grande amico di Michele Greco arrestato e condannato per associazione mafiosa nel 1997.

Antonio Mandalà, detto Nino è stato anche il fondatore di uno dei primi club di Fi in Sicilia e attraverso il nipote Giuseppe Navetta sindaco a Villabate, a cui impartisce direttamente gli ordini, ed il figlio Nicola, che controlla a sua volta sei paesi strategici, gestisce direttamente le operazioni più delicate. Come quella incredibile ricostruita mirabilmente da Lirio Abbate e Peter Gomez nel libro inchiesta I Complici: Francesco Campanella, uomo di Cosa Nostra, braccio destro del boss Nino, nonchè politico targato Mastella, legatissimo a Totò Cuffaro, falsifica in modo rocambolesco la carta di identità di Bernardo Provenzano, “il latitante” più ricercato, come gli ha chiesto espressamente Nino Mandalà e poi si reca tranquillamente all’appuntamento con Nicola Mandalà al centro commerciale Corvaia, appena fuori Villabate.

Nino Mandalà viene arrestato nel 1998 e condannato ad 8 anni per associazione mafiosa come capocosca di Villabate.

Renato Schifani esce dalla Sicula Brokers nel 1980; nell’ 83 tra gli altri difende anche un mafioso di rango come Giovanni Bontate e tra i numerosi incarichi amministrativi è stato consulente per l’urbanistica ed il piano regolatore del comune di Villabate quando era sindaco Giuseppe Navetta, per conto dello zio.

Non manca occasione forte della sua autorevolezza e del suo senso dello Stato di auspicare, dallo scranno della presidenza del Senato, una “politica dell’ascolto” come pratica quotidiano delle commissioni ed in aula.

Saverio Romano, ministro che non vede nessun motivo per dimettersi, che si ritiene, analogamente ad Alfonso Papavittima di una ritorsione” e si scaglia indignato contro “il solone” Fini, reo di favorire la parentela, sarebbe sempre quello che in un pranzo pre-elettorale ai massimi livelli nel 2001 ha detto a Francesco Campanella, secondo la testimonianza di un commensale “mi devi votare perché siamo della stessa famiglia.

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