Ismail arriva alla Camera con una maglietta a righe e una giacca blu. Ha i capelli corvini, la pelle scura dei tunisini. Si sente fuori luogo. Eppure quando accende il microfono, la sua voce è ferma, pacata, il suo italiano è perfetto. È un uomo che tiene alla sua dignità, nonostante tutto quello che gli è successo. Ha 45 anni, molti dei quali passati in carcere. “Io sono un criminale”, afferma guardando negli occhi la platea dei giornalisti, “ma mentre le guardie mi picchiavano mi contorcevo come un verme. Ho vomitato, mi sono pisciato addosso, poi ho perso i sensi”.

La storia di Ismail Ltaief comincia nel penitenziario di Velletri, dove è recluso per scontare una condanna a cinque anni per detenzione illegale di armi (ne farà quattro, uscendo poi per buona condotta). Quando arriva, gli viene chiesto di lavorare in cucina, uno dei pochi luoghi in cui i detenuti possono lavorare: meglio trafficare con pentole e mestoli piuttosto che rimanere 23 ore in una cella sovraffollata. Eppure Ismail si rende subito conto che c’è qualcosa che non va: da quella cucina il cibo sparisce. “Arrivavano cozze, carciofi, peperoni – racconta –, ma ai detenuti veniva data pasta in bianco”.
Ismail comincia ad annotare tutto su un diario. “Poi chiedo i motivi. Mi rispondono: ‘Ma sei diventato santo? O prendi anche tu un po’ di roba oppure stai zitto’”. È lì che scatta la prima minaccia: “Uno degli assistenti, tale Antonio – scrive il gip di Velletri, Alessandra Ilari nell’ordinanza di applicazione di misura coercitiva – lo aveva minacciato, dicendogli che, se avesse denunciato quanto accadeva, lo avrebbe murato in un pilastro di cemento”. Ismail si spaventa e decide di “ritrattare”, sostenendo di aver frainteso tutto.
“Volevano fare un patto – prosegue l’ormai ex detenuto –: una cella singola o un computer in cambio del mio silenzio”. Il comandante di reparto Andrea Quattrocchi, scrive ancora il gip, “dava atto nella relazione di aver effettuato un’indagine interna e di poter escludere la veridicità delle accuse mosse dal Ltaief al personale”.

Eppure le vessazioni non cessano, così Ismail scrive al Magistrato di Sorveglianza, chiedendogli di acquisire il suo diario e di indagare; “e di fare presto, in quanto egli si sentiva in pericolo di vita”. Ma alla fine di maggio (tra il 19 e il 31), per due volte, l’uomo racconta di essere stato picchiato. La seconda, in particolare, brutalmente: “Trauma contusivo dell’emitorace sinistro, frattura dell’apofisi traversa destra di L1 ed ecchimosi in sede dorso-lombare”, si legge nelle considerazioni medico-legali della Procura. “Calci e pugni”, e anche un oggetto “a superficie relativamente ampia, privo di asperità, animato da notevole forza viva”, forse un bastone di plastica. “Quando hanno cominciato a picchiarmi – prosegue Ismail – ho sentito uno di loro dire: non lasciamogli segni. Questo, nel linguaggio carcerario, vuol dire che volevano risparmiarmi la vita. Poi, però, sono caduto a terra e si sono accaniti su di me. Mi contorcevo come un verme, vomitavo e mi pisciavo addosso. Poi sono svenuto”.
La fortuna di Ismail è stata quella di trovare un Magistrato di Sorveglianza che ha compreso la gravità della situazione e che tre giorni dopo il pestaggio, lo ha fatto trasferire in ospedale. A quel punto sono scattate le indagini della Procura di Velletri che hanno portato, all’inizio di quest’anno, all’individuazione dei presunti responsabili di quelle violenze e all’emissione di alcune misure cautelari: l’ispettore Roberto Pagani e gli assistenti Giampiero Cresce e Carmine Fieramosca finiscono agli arresti domiciliari con l’accusa di lesioni personali aggravate, agli assistenti Mauro Bussoletti e Antonio Pirolozzi viene imposto l’obbligo di dimora per il reato di violenza privata.

Oggi la prima udienza, durante la quale Ismail, assistito dall’avvocato radicale Alessandro Gerardi, si costituirà parte civile. “Il problema è che adesso che è fuori – spiega Irene Testa dell’associazione “Il detenuto ignoto”, che ha preso a cuore la storia del tunisino – non ha di che sfamarsi. Dorme sulla spiaggia e spesso non mangia per tre giorni”. “Io non voglio più essere un criminale – ci racconta Ismail con gli occhi bassi –, ma nessuno mi dà un lavoro, appena dico che sono un ex detenuto mi voltano le spalle”. Già, la famosa funzione rieducativa del carcere garantita dalla Costituzione.

Da Il Fatto Quotidiano del 14 luglio 2011

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