Bollette carissime, indebitamento milionario e un passaggio di azioni ai limiti della legalità per l’acqua di Arezzo, la prima provincia italiana ad aver fatto entrare in parte, nel 1999, il privato nel servizio idrico. Ora Sel, Idv e Sinistra per Arezzo chiedono che si torni alle gestione pubblica. Alla fine degli anni ’90, 37 sindaci dell’Ato 4 (Ambito territoriale ottimale) affidarono per 25 anni la minoranza della gestione a Nuove Acque S.p.A, capitanata da Gdf Suez, Acea, Monte dei Paschi di Siena e Banca Etruria.

Partiamo con i numeri di questo modello di privatizzazione che il referendum dello scorso giugno ha abrogato: i 122 milioni di euro di investimenti effettuati negli ultimi 10 anni sono meno della metà di quanto speso quando l’acqua era pubblica. Si tratta degli attuali 25 euro pro-capite per anno contro i 31 euro di quindici anni fa che, tuttavia, non scontano il tasso di inflazione dal 1985 ad oggi e quello previsto fino al 2023.

Inoltre “in base ai dati ufficiali dell’Ato (Ambito Territoriale Ottimale) nel ’98 le perdite nelle condutture di Arezzo erano del 35%, in linea con la media nazionale, attualmente, dopo dodici anni, sono al 34%”, dichiara Lucio Beloni, presidente del Comitato Acqua Pubblica di Arezzo. Il Comitato, però, in questi giorni si è preso una bella rivincita. “Nuove Acque Spa dovrà restituire a noi cittadini – spiega Beloni – 800.000 euro circa per 130mila utenze. Avevano richiesto – continua – due aumenti una tantum, ‘unici e irripetibili’, quando in realtà, a noi risultava, che si trattasse del 2° e 3° aumento ‘unico e irripetibile’ nel giro di pochi mesi”. Così il primo luglio il Tar Toscana ha dato ragione agli utenti per quegli aumenti illegittimi.

Vediamo ora, però, perché Arezzo vanta le tariffe tra le più care d’Italia. Secondo la Conviri, la Commissione nazionale che vigila sulle risorse idriche, qui un metro cubo d’acqua costa 2,28 euro contro una media di 1,37 euro. E per i prossimi anni andrà anche peggio: l’aumento previsto è già superiore a quanto consentito dalla legge: il 6,5%. Inoltre l’Ato4, unico caso in Italia, alla tariffa media aggiunge una quota fissa di 60 euro annui, contro i 10 euro della media nazionale (dati Cittadinanza sul 2007). Un sistema che nel novembre 2010 la Conviri ha sancito illegittimo, perché fa “garantire al gestore ricavi extra di 160 milioni di euro fino al 2023”. Intanto Nuove Acque lo scorso anno ha raggiunto un indebitamento di 73 milioni di euro: 58 milioni con le banche, tra cui ci sono i soci privati MpS e Banca Etruria.

Ma alle due banche non dispiacerà l’indebitamento, visto che nel 2005 hanno concesso un finanziamento (Project Financing) a Nuove Acque di quasi 70 milioni di euro a un tasso fisso del 6,2%. In totale il prestito costerà circa 16 milioni di euro in più rispetto a quello agevolato che avrebbe stanziato la Cassa Deposito e Prestiti. Ma la scelta di ricorrere alle banche soddisfa l’articolo 4 dello statuto che “obbliga ad affidare ai soci lavori e servizi”. Ed è proprio su questo punto che si giocano tutti gli interessi dell’oro blu. “La cordata privata – spiega Beloni – trae esclusivamente profitto dalla gestione dell’acqua, mantenendo in difficoltà la società in modo da ottenere l’aumento delle tariffe o l’abbassamento degli investimenti”.

L’articolo 16 dello statuto concede pieni poteri all’ad, Jerome Douziech, scelto dai soci privati, nonostante rappresentino la minoranza. I Comuni possono invece nominare il presidente. Quello attuale è Paolo Ricci, ex sindaco di Arezzo del centrosinistra negli anni in cui si affidava il servizio idrico a Nuove Acque. E se all’articolo 1 è previsto che il consiglio sia formato da nove membri (cinque del pubblico e quattro del privato), cosa meno nota è che per qualsiasi delibera occorrano sei voti.

Un intreccio di potere che nel 2009 ha portato Acea (controllata al 51% dal Comune di Roma con il gruppo Caltagirone al 15% e Suez al 10%) ad acquistare il 35% delle quote private dall’Iride Acqua Gas Spa. Un ingresso dichiarato tuttavia illegittimo da un socio pubblico di Nuove Acque. Per Danilo Bianchi, uno dei 37 sindaci dell’Ato4, si tratta di “un fatto in palese contrasto con quanto previsto nell’art. 11 dello statuto che obbliga il socio a non trasferire a terzi le proprie azioni senza il preventivo consenso scritto degli altri soci. Richiesta che, chiosa il sindaco, non c’è mai stata”.

L’accusa, affatto velata, è che l’entrata di Acea rappresenti un chiaro indirizzo verso la creazione di un unico gestore a livello regionale (Acea e Gdf hanno quote in tutte le Ato private in Toscana). Tanto che, lo scorso 21 settembre, l’Ato4 ha richiesto ai soci privati “di non procedere alla cessione delle azioni a favore di Acea S.p.a. o, nel caso un cui la cessione fosse già stata perfezionata, di vietarne lo svolgimento”. Ma sulla partnership italiana tra Acea e Suez incombe l’arrivo di una sentenza che potrebbe far vacillare ancor di più l’asse sulla gestione privata dell’acqua, messa già a dura prova dal voto referendario. Si attende a giorni l’esito del ricorso presentato dall’Antitrust che nel 2007, durante un’indagine sulla società fiorentina Publiacqua, spiegò che “l’obiettivo era utilizzare Acea come braccio armato di Suez per l’acqua in Italia”. Tanto che l’Autorità, guidata da Antonio Catricalà, comminò una multa di 11,3 milioni di euro a Suez e Acea, e che successivamente il Tar del Lazio annullò. E da qui il ricorso.

di Patrizia De Rubertis

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