Nella seconda metà degli anni Cinquanta arriva in Italia una nuova inebriante musica proveniente dagli Stati Uniti: il Rock and Roll. Elvis Presley, Little Richard Jerry Lee Lewis e Buddy Holly sono nomi, ai più, sconosciuti nel Belpaese ma non a Napoli, che – essendo sede dell’Afsouth, branca della Nato – tra tutte le città italiane è quella meglio posizionata per accogliere in tempo reale le diverse suggestioni provenienti da Oltreoceano. All’ombra del Vesuvio gli americani inaugurano locali e importano la loro musica, arrivano 45 giri e Lp che nel resto d’Italia i giovani possono solo sognare, mentre Napoli, alla fine degli anni Cinquanta, è una città che ascolta i suoni in diretta con l’America piuttosto che con Roma. Tra i giovani che beneficiano di questo privilegio vi è Edoardo Bennato e l’incontro con Elvis Presley, per lui, rappresenta il primo vero punto di non ritorno: Elvis per Bennato è la scintilla da cui è partito tutto.

E come è andata lo racconta in maniera approfondita Francesco Donadio, responsabile di Extra! Music magazine, nel suo Edoardo Bennato – Venderò la mia rabbia (Arcana editore, 350 pagg. 18.50 euro). Sottotitolo che evidenzia come sia stato difficile per un giovane come Bennato riuscire a farsi notare, ad emergere nonostante lo strepitoso talento. Sarà proprio la rabbia (e la inscalfibile determinazione), la chiave per comprendere il successo che ha avuto e per cui – anche – , è stato etichettato politicamente in un certo modo. Si pensava che la sua fosse un’inquietudine politica, rivoluzionaria, in linea con quella della generazione dei movimenti post-sessantottini, mentre invece traeva origine dal suo profondo, da frustrazioni e da vicende personali. Era comunque “vera”, quanto mai reale. Le due percezioni a un certo punto (più o meno casualmente) si sono sovrapposte, e da qui è nata l’epopea di Bennato.

Nel tuo libro dici che dopo un’infatuazione giovanile per Bennato, l’hai riscoperto in seguito, quasi per motivi di forza maggiore. Ci racconti com’è andata?
Il “responsabile”, se così si può dire, è mio figlio che oggi ha 9 anni. Un paio d’anni fa, a una festicciola di fine anno scolastico con gli altri genitori, con il padrone di casa ci siamo messi a esaminare la sua collezione di dischi in vinile. Parlando del più e del meno, mi sono messo a fare paragoni tra me e mio figlio, e sul fatto che il mio interesse per la musica fosse sbocciato più o meno a 7-8 anni con i primi 45 dei Beatles e degli Aphrodite’s Child che avevo a casa, mentre in lui non riscontravo ancora un’analoga passione. A questo punto il mio interlocutore mi ha dato un suggerimento: ‘Perché non provi a fargli sentire i dischi di Bennato’, mi ha detto, ‘quelli delle favole?’. Mi è sembrata un’ottima idea. Di cd di Bennato, a casa ne avevo due, Burattino senza fili e Sono solo canzonette. Ma non li avevo mai praticamente risentiti. Così quando quell’estate siamo partiti per la montagna, li ho infilati nello zaino. Chissà perché, solo quelli. Eravamo in Austria, in una specie di eremo isolato dal mondo, e per un paio di settimane ce li siamo sentiti a rotazione continua, senza soluzione di continuità. Così, per la prima volta, ho avuto modo di ascoltare quelle canzoni con un orecchio da adulto, e ho realizzato che i testi di Bennato erano molto più sfaccettati di quanto avessi potuto apprezzare a 13 anni. Per la prima volta ho compreso le metafore sottese alla parte favolistica, e mi sono reso conto di come in realtà Bennato stesse descrivendo se stesso e la sua generazione durante i (turbolenti) anni Settanta. Ed è così che è nata l’idea di raccontare la vita e la carriera di Bennato, trattandolo come si fa nei Paesi anglosassoni per artisti della levatura di Tom Waits o di David Bowie e giudicandone l’opera da disco a disco senza scadere in inutili adulazioni, che è quel che spesso accade nell’editoria musicale italiana.

Hai scritto che – rileggendolo – hai pensato che il tuo libro “probabilmente a Edoardo non piacerà”. Alla fine qual è stato il suo giudizio?
Naturalmente Edoardo è stato il primo a ricevere il libro, e dai primi feedback ricevuti da parte del management e dal fratello Giorgio, è andata esattamente come avevo previsto: non gli è piaciuto granché (così almeno pare). Lui d’altronde è una sorta di control freak. Basti pensare che le sue due precedenti biografie erano firmate da Giorgio Darmanin e da Aldo Foglia, suoi collaboratori di lungo corso, e presumibilmente vidimate da lui stesso. E poi, comunque, Bennato ha sempre avuto in uggia la stampa e ha sempre detestato dare interviste. Il fatto che un “esterno” – quale io sono – possa arrivare a dare giudizi negativi sule sue canzoni o sui suoi LP è un fatto che di per sé lo infastidisce profondamente. Anche se… io ho detto semplicemente “sempre quello che mi va”, applicando l’insegnamento dello stesso Bennato nel brano Sono solo canzonette! Ma la cosa che penso lo abbia seccato di più, è che nel mio libro per la prima volta ho rivelato inconfutabilmente la vera data di nascita di Edoardo, una questione su cui lui ha sempre gettato fumo negli occhi.

Qual è l’aspetto di Bennato che più ti ha colpito andando a indagare nella sua vita?
Probabilmente la discrepanza tra ciò che Bennato effettivamente era e il modo in cui venne percepito, in particolare negli anni Settanta. Era classificato come cantautore di protesta, quasi un estremista, mentre in realtà Bennato nella vita reale è un apolitico, un agnostico che alla maniera di Dylan o dei Rolling Stones (suoi massimi ispiratori) non si è mai schierato da una parte o da un’altra (e la morale de I buoni e i cattivi, in fondo, era esattamente questa, anche se nessuno la capì davvero). Insomma: Bennato era un outsider, e proprio per questo motivo, a mio parere, tra tutti i cantautori è quello che ha descritto nella maniera più giusta e calibrata i cosiddetti anni di Piombo.

E quanta rabbia c’è, se c’è, e sudore da parte tua?
Sudore senz’altro, è stata una bella faticata ma piacevole, alla fine mi sono divertito come un matto a ricostruire ambientazioni ed epoche così lontane come gli anni Sessanta a Napoli e Milano e i Settanta a Roma. ‘Rabbia’ certamente un tempo c’era pure per me, se intendiamo un certo tipo di veemenza punk, il genere che più mi ha formato durante il periodo dell’adolescenza. Oggi un po’ meno, tendo decisamente ad altri ascolti. E comunque, a proposito del punk, uno dei motivi che mi ha spinto a scrivere il libro è stato il mio realizzare che Bennato, nel 73-74 possedeva proprio quel tipo di collera e di indignazione che poi sarebbe stata fatta propria dai Sex Pistols e dai Clash nel 76-77.
Senza saperlo, Bennato è stato uno dei primi punk al mondo, prima ancora che quel termine venisse coniato per definire un genere di musica.

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