Niente più permessi di lavoro per indonesiani e filippini in Arabia Saudita. Il governo saudita ha annunciato che da sabato non saranno più rilasciati visti d’ingresso per i lavoratori indonesiani e filippini che attendono di trovare un impiego nel regno. La decisione saudita viene presentata come una «ritorsione» per quanto stabilito la scorsa settimana dal governo indonesiano, che ha decretato una moratoria a tempo indeterminato sui permessi di lavoro per i propri cittadini. La moratoria è stata decretata dal governo, a partire dal primo agosto, dopo che una colf indonesiana, Ruyati binti Sapubi, 54 anni, è stata condannata a morte e decapitata per essere stata riconosciuta colpevole dell’omicidio del suo datore di lavoro.

Il governo indonesiano ha protestato ufficialmente con quello saudita per non essere stato informato del processo e della sentenza, accolta con manifestazioni di piazza nella capitale indonesiana Giacarta. Il presidente indonesiano Susilo Bambang Yudhoyono ha detto che l’esecuzione ha violato «i modi e le consuetudini» delle relazioni diplomatiche tra i due paesi, uno il cuore dell’Islam sunnita e l’altro il più popoloso paese musulmano del mondo. Yudhoyono ha promesso un maggiore impegno del governo per proteggere i lavoratori emigrati e intanto ha sospeso ogni autorizzazione alle agenzie saudite che in Indonesia reclutano lavoratori e lavoratrici, spesso nei villaggi delle zone rurali.

Negli ultimi venti anni, oltre 300 lavoratori indonesiani sono stati condannati a morte e giustiziati in Arabia Saudita, e solo in una dozzina di casi le autorità indonesiane sono state in grado di intervenire per salvare i propri connazionali. Altri ventidue sono già nel braccio della morte di diverse prigioni saudite.

Tra Indonesia e Arabia Saudita esiste un vero e proprio mercato di lavoratori, specialmente donne impiegate in lavori domestici. Sono circa un milione e mezzo gli indonesiani che lavorano nel regno arabo, da dove, secondo le stime dell’International Organization for Migration (IOM) mandano in patria 2,2 miliardi di dollari l’anno (cifre del 2009). Un milione almeno sono donne come Ruyati. Dalle Filippine, invece, sono circa mezzo milione le lavoratrici che vanno in Arabia Saudita e il governo di Manila ha più volte protestato con Ryadh e con altri governi dei paesi del Golfo per come i lavoratori e le lavoratrici vengono trattati. Quando il governo saudita ha deciso di ridurre il salario minimo delle colf da 400 a 200 dollari al mese, Manila ha smesso di rilasciare permessi per emigrare.

Non ci sono meccanismi di tutela legale per i lavoratori migranti e anzi capita spesso che quando scade un contratto, i datori di lavoro si rifiutino di pagare il biglietto di rientro, lasciando operai e colf in un limbo giuridico che si traduce in lunghissimi periodi di detenzione nei centri per migranti. Nel caso di Ruyati, a scatenare la reazione della donna, oltre alle angherie, sarebbe stato l’ennesimo rifiuto di un periodo di vacanza per tornare a trovare la famiglia in Indonesia. In questo mercato che frutta all’Indonesia ogni anno quasi 8 miliardi di dollari di rimesse dagli emigranti in tutto il mondo, le donne sono le più vulnerabili. Le autorità saudite fanno finta di non vedere, nonostante campagne come quella lanciata lo scorso anno da Human Rights Watch per ottenere la liberazione dei lavoratori detenuti in diversi centri e chiedere la fine del sistema della «sponsorizzazione»: per uscire dal regno, il lavoratore ha bisogno dell’autorizzazione del suo datore di lavoro, che spesso, però, si rifiuta di concederla. Non sono rari i casi di passaporti sequestrati dai datori di lavoro che spesso impediscono ai migranti di avere contatti con i familiari rimasti in patria.

Non è il primo caso di lavoratori maltrattati ad agitare le relazioni tra i due paesi. Ad aprile scorso, in Indonesia ci sono state dure proteste di piazza dopo che una donna saudita è stata assolta in appello dall’accusa di aver torturato la sua colf. E il caso di Ruyati scuote di nuovo l’opinione pubblica indonesiana. La figlia della donna, Een Nuraini, ha rilasciato molte interviste accusando le autorità saudite di aver celebrato un processo farsa, senza che fosse riconosciuto a sua madre il diritto a un’adeguata difesa, né che fossero prese in considerazione le molestie e gli abusi che Ruyati avrebbe subito da parte del suo datore di lavoro. Casi del genere sono tutt’altro che rari, tanto che associazioni umanitarie saudite, spesso gestite da donne, hanno organizzato delle «case protette» dove le lavoratrici in fuga possono trovare riparo fino a quando non si riesce a organizzarne il rimpatrio.

Jumhur Hidayat, capo dell’agenzia governativa indonesiana incaricata della protezione dei lavoratori migranti, ha detto che alcune misure sono già allo studio: «Non consentiremo che i lavoratori e le lavoratrici vivano nella stessa casa dei loro datori di lavoro – ha detto Hidayat alla stampa indonesiana – In questo modo sarà più facile fare ispezioni regolari per prevenire abusi». Il governo di Giacarta, però, sembra un po’ troppo ottimista. Ufficialmente, infatti, la moratoria sui trasferimenti in Arabia Saudita (che non riguarda circa 10 mila persone già in possesso del visto d’ingresso) dovrebbe durare solo fino a quando i due paesi non avranno raggiunto un accordo. La reazione saudita, però, indica che le trattative saranno tutt’altro che facili, perché nel regno ci sono almeno 9 milioni di lavoratori stranieri, circa il 30 per cento della popolazione.

Un accordo con l’Indonesia potrebbe aprire la strada a rivendicazioni simili da parte di altri paesi, come l’India, il Bangladesh o il Pakistan, che «esportano» centinaia di migliaia di lavoratori ogni anno. Il problema sta diventando esplosivo, anche perché l’Arabia Saudita ha intanto raggiunto un tasso di disoccupazione giovanile che sfiora il 30 per cento e perché, attraverso il Qatar e il Kuwait, arrivano anche migliaia di lavoratori illegali, che alimentano un mercato delle braccia da miliardi di dollari a tutto vantaggio delle famiglie saudite arricchite dalla rendita petrolifera.

di Joseph Zarlingo

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