Se c’è una certezza nel viaggio, è quella della carta stradale che trova nel cartello il suo ancoraggio terrestre.

Ma se il luogo non cambia, cambia invece il nome con cui ogni epoca lo chiama. Così oggi viaggiando verso Liegi da Lussemburgo, il cartello per Liège lascia presto il posto a quello per Luik, più o meno dove scompaiono i cartelli per Aix-la-Chapelle e compaiono quelli per Aken, che però portano a Aachen: tutti e tre lo stesso posto.

Poco prima spuntano quelli per Trier sulla strada che dall’altra parte della Mosella in francese va a Trèves. Lì l’anello si chiude e ricomincia per chi volesse andare a Lilla da Bruxelles ma non vede traccia del cartello se nelle Fiandre non segue quelli per Rijssel, che è il fiammingo per Lille.

Fino a pochi anni fa, la strada che da Vyborg va a Sankt Peterburg per i primi cento chilometri portava a Leningrad. Questione di lingua, banalizzeranno in tanti.

Basterebbe chiamare ogni posto con il proprio nome e mai tradurre. Sembra facile. L’impero asburgico cercò di scavalcare il problema traducendo invece tutto in tutte le lingue dell’impero. Così Pecs in Ungheria si chiamava Cinquechiese in italiano e l’attuale Subotica serba faceva Mariateresiopoli, mentre l’ucraina Lviv, asburgica Lemberg per noi era Leopoli.

Allora perché non scardinare anche l’ultima certezza della carta stradale e lanciare un multilinguismo dei cartelli? Nelle 23 lingue ufficiali UE, più qualche lingua regionale e i più cospicui dialetti. Cartello per Pontida: Inglese, Lombard Meadows; Francese, Saint-Bosses-aux-près. Tedesco: Volkswiesental. Spagnolo: Prado de los cabrones.

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