di Alessandro Barbero
Nel febbraio 1571, pochi mesi prima della battaglia di Lepanto, il francescano italiano fra Paolo Biscotto fu arrestato a Costantinopoli. Il frate era vissuto lì per parecchi anni, ma aveva lasciato la città allo scoppio della guerra tra il sultano e Venezia; poi era tornato in incognito e travestito da secolare, cosa che logicamente insospettì le autorità ottomane. Nella sua cella al convento di San Francesco a Galata vennero scoperti documenti compromettenti, che provavano la sua attività di spionaggio; perciò il disgraziato fu condannato a morte. Il 28 aprile venne condotto per le vie di Costantinopoli, col palo in spalla, fino al convento di San Francesco, e lì fu impalato nel mezzo della chiesa; rimase sul palo per otto giorni prima che due giannizzeri ubriachi tirassero giù il palo e buttassero il cadavere in mare.

È chiaro che i turchi erano profondamente seccati che un frate vissuto per tanto tempo fra loro si fosse rivelato una spia; e perciò vollero infliggere una pena terribile e umiliante non solo a lui, ma all’intera comunità francescana di Galata, dissacrando con l’atroce esecuzione lo stesso edificio. E’ una storia che si colloca bene nel panorama del Cinquecento, forse il secolo più intollerante dell’intera storia umana, e quello in cui l’odio religioso ha provocato gli effetti più devastanti. E tuttavia, per quanto spiacevole appaia la vicenda, bisognerà pur riflettere sul fatto che a Costantinopoli, capitale del sultano-califfo, funzionava regolarmente un convento francescano con tanto di chiesa, e non era certo l’unica: erano decine le chiese ortodosse, armene, e perfino cattoliche aperte per gli abitanti cristiani della metropoli.

Intendiamoci: non erano amate, non dovevano essere edifici troppo imponenti, era proibito costruirne di nuove, e più d’una volta il governo ottomano minacciò di chiuderle tutte; ma non lo fece mai. E’ difficile non fare il confronto con l’Occidente cristiano, dove l’esistenza di una moschea e la celebrazione pubblica di riti religiosi musulmani erano addirittura impensabili. La prima, e a lungo l’unica, moschea in Occidente fu quella del Fondaco dei Turchi a Venezia, aperto nel 1621: tra i veneziani le ragioni del commercio prevalevano su ogni altra considerazione, ma non è un caso che il Fondaco sia stato collocato alla periferia della città, in Cannaregio, quasi di fronte all’attuale stazione ferroviaria. La moschea, poi, non era altro che uno spazio privato all’interno dell’edificio, dove i mercanti musulmani, lì ospitati e ghettizzati, potevano pregare senza farsi vedere o sentire da nessuno.

Nell’Occidente moderno, i paesi anglosassoni hanno affrontato per primi il problema di aprire delle moschee per gli immigrati musulmani. In Inghilterra, che in India governava milioni di sudditi islamici, la prima moschea nacque già nel 1889, nel sobborgo londinese di Woking. Negli Stati Uniti la prima moschea fu costruita nel 1915 nel Maine, da immigrati albanesi; gente cioè i cui parenti rimasti a casa sarebbero diventati di lì a poco felici sudditi del re d’Italia. Erano gli anni in cui anche le comunità ebraiche, finalmente libere da discriminazioni, costruivano le imponenti sinagoghe che vediamo ancor oggi: quella di Roma è sorta fra il 1901 e il 1904. La nascita di sinagoghe e moschee era il simbolo di una nuova era di libertà; e se qualcuno pensa che oggi il parallelo sia fuori luogo, ecco pronta a smentirlo la storia nient’affatto edificante della sinagoga di Guilford.

A Guilford, dunque, cittadina del Connecticut, e quindi di uno dei più democratici e progressisti fra gli States, una corte ha appoggiato la protesta dei residenti e proibito la costruzione di una sinagoga del movimento Chabad-Lubavitch. I commenti sul sito del giornale locale sono istruttivi. Uno suggerisce: “Dovrebbero trovare un musulmano che chieda di costruire una moschea. Allora sì che gli lascerebbero costruire la sinagoga”. Un altro precisa: “Sono contrario perché quella è un’area residenziale, e non voglio essere chiamato antisemita. Dovremmo odiare solo l’Islam, non il giudaismo”. Ancora: “Com’è che il Presidente non si fa vedere? Oh, scusate, non ci sono musulmani da proteggere, solo quegli ebrei”. E infine: “Una cosa che nessuno dice è che non vogliamo la diversità a Guilford. Cosa arriverà poi, una moschea? La nostra piccola guerra santa fra questi pazzi di ebrei e musulmani. Non è questo che vuole Guilford”. Il resto non è citabile.

La Milano di Pisapia come il Connecticut, dunque; o come la Svizzera, dove il referendum del 2009 ha vietato la costruzione di minareti. E’ interessante che sia proprio il minareto a catalizzare l’avversione, associato com’è al richiamo del muezzin, l’adhan, che connota inequivocabilmente il paesaggio sonoro delle città musulmane. Lo spazio sonoro è importante e non siamo solo noi a sentire come invasiva la sua occupazione da parte degli appelli di un’altra religione: nell’impero ottomano le chiese cristiane avevano il permesso di celebrare il culto, ma suonare le campane era vietato, e tuttora sentire lo scampanio in un paese islamico è improbabile quanto sentir echeggiare l’adhan in una città europea. Proibire i minareti significa adottare lo stesso punto di vista di quelle autorità musulmane che dicono: noi vi tolleriamo, ma non fatevi sentire. E pensare che secondo il grande arabista e teologo Louis Massignon l’adhan era in origine una pratica dei monasteri cristiani d’Oriente! Proprio dopo essersi consultato con Massignon un allievo di Charles de Foucauld, padre René Voillaume, che operava fra i musulmani dell’Algeria, decise di rinunciare alle campane, introdusse l’appello alla preghiera e costruì addirittura quello che lui stesso chiama un minareto, finché il suo vescovo, comprensibilmente allarmato, non gli intimò di smetterla.

Va anche detto che proprio nei movimenti islamici più retrogradi e ostili all’Occidente ci sono correnti che guardano con diffidenza al minareto, considerato come un segno di ostentazione che non esisteva al tempo di Maometto, e un’imitazione dei campanili cristiani. E allora, forse basterebbe aiutare i musulmani a ricordarsi quello che hanno saputo per secoli: che una moschea non deve avere per forza una cupola e dei minareti, che qualunque edificio può essere la casa della preghiera, e che non è affatto necessario distinguersi dallo stile architettonico del paese. La Grande Moschea di Xian, l’antica capitale dell’esercito di terracotta, costruita nell’VIII secolo dai primi musulmani della Cina, è in stile completamente cinese, e ha una pagoda come minareto. In secoli molto più vicini a noi, le moschee costruite dai tatari in Polonia sono identiche alle chiese di legno dei cristiani locali. La moschea di Milano dovrebbe essere costruita sul modello del Duomo; un po’ più piccola, magari, e con un piccolissimo minareto al posto della Madonnina. Per la fine del Ramadan, risotto alla milanese e panettone per tutti: e nessuno farebbe polemiche se fossero offerti dal comune.

Articolo Precedente

Per riformare lo Strega
ci vuole il batterio killer

next
Articolo Successivo

In edicola con il nuovo “Saturno”

next