Con l’arresto (motivato da una condanna definitiva) di Vincenzo Alfano, ieri nella sua casa di Nonantola, alle porte di Modena, la Dda di Palermo ha reciso un altro collegamento dei corleonesi che hanno gestito gli affari al nord e coperto la latitanza di Bernardo Provenzano. Ma le storie che si sono intrecciate lungo la via Emilia dal periodo delle stragi alla cattura dello storico capo di Cosa Nostra restano in buona parte da svelare.

Non solo quella raccontata dal terrorista nero pentito Paolo Bellini sulla trattativa dell’estate ’92 con il boss Antonino Gioè per recuperare quadri rubati alla Pinacoteca di Modena, parallela ai contatti tra il colonnello del Ros Mario Mori e Vito Ciancimino. Compongono il mosaico i movimenti tra Castelfranco Emilia e Nonantola di due pezzi da novanta del regno di Provenzano: il fidato collaboratore Francesco Pastoia, morto suicida in carcere nel 2005, e Vincenzo Alfano, appunto,  costruttore di stretta osservanza dei Mandalà.

Ieri la Cassazione ha condannato Alfano a 6 anni e 8 mesi assieme a Gioacchino Badagliacca, Giampiero Pitarresi e Vincenzo Paparopoli rimediando alla scarcerazione del 29 aprile per decorrenza dei termini: la conferma della sentenza della corte d’appello di Palermo ha permesso ai carabinieri di Modena e del nucleo operativo di Misilmeri di riarrestare i quattro affiliati che ora sconteranno il residuo di pena.

Badagliacca nel 2003 accompagnò Provenzano nella clinica di Marsiglia per l’operazione alla prostata, Paparopoli fornì la carta d’identità per le schede telefoniche pulite, gli altri due si premuravano di moltiplicare i soldi della cosca. Per i giudici palermitani Alfano era “a totale disposizione della famiglia di Villabate per appalti pubblici e per il reinvestimento dei capitali illeciti”, anche delle sale Bingo e dei centri scommesse. Stiamo parlando di Nicola e Nino Mandalà, quest’ultimo noto per essere stato – anni prima di venire accusato di mafia – socio di Renato Schifani nella Sicula Brokers.

Anche nel Modenese Alfano ha continuato a investire denaro della cosca nel suo settore: l’edilizia. Scegliendo di base un paese, Nonantola, dove si è andata consolidando la dominazione del clan dei Casalesi, alleati storici (in chiave anti-cutoliana) di una Cosa Nostra da cui hanno mutuato la struttura verticistica piramidale.

I traffici di droga, le bische clandestine, le estorsioni mirate e la torta degli appalti erano spartiti in nome della pax mafiosa. A Nonantola la squadra Mobile l’anno scorso ha scoperto la villa bunker di Alfonso Perrone, referente di Francesco ‘Sandokan’ Schiavone e, secondo un’intercettazione del Gico di Bologna, in contatto col superlatitante Michele Zagaria.

Una casa anonima all’esterno e altamente tecnologica entro le mura con vetri scuri, scanner per intercettare la polizia, garage-covo. Probabile che anche i siciliani potessero disporre di strutture simili. Confusa tra le decine di imprese di casertani, la Cga costruzioni di Vincenzo Alfano puntava ai grandi subappalti emiliani e siculi a partire, come affermato dal pentito Vincenzo Campanella, dal Ponte sullo Stretto.

Nel cantiere modenese negli ultimi anni aveva assunto il figlio del boss Francesco Pastoia, uomo dei pizzini di Bernardo Provenzano. Infatti passano dall’Emilia i segreti del latitante più invisibile della storia d’Italia, ricercato dal 1963, capo della mafia trattativista dal gennaio 1993 fino alla cattura dell’11 aprile 2006, il giorno dopo le elezioni politiche. Nell’estate delle stragi, quando ‘Binnu’ non aveva ancora preso il posto di Totò Riina, il pentito reggiano Bellini, terrorista nero e killer ‘coperto‘ per un trentennio (nel 2005 è riuscito persino a strappare la prescrizione dopo aver confessato l’omicidio del militante di Lotta Continua Alceste Campanile, freddato nel 1975 a Montecchio) in rapporti con ‘Ndrangheta, carabinieri e imprecisati 007, ha parlato di una trattativa.

Minore e parallela ai rapporti tra Vito Ciancimino e il colonnello del Ros Mario Mori, che però ha smentito di esserne a conoscenza. Bellini ha affermato di aver ricevuto dal maresciallo Tempesta nell’agosto del ’92 l’incarico di contattare Antonino Gioè, boss che aveva fatto parte del commando della strage di Capaci. Lo strano scambio poi sfumato avrebbe riguardato il recupero di quadri rubati alla Pinacoteca di Modena e le attenuazioni delle misure carcerarie a capimafia come Giovanni Brusca e Pippo Calò.

Gioè, vicinissimo a Leoluca Bagarella, non potrà parlare di questa trattativa sulle opere d’arte alcuni mesi prima delle stragi mafiose dietro gli Uffizi e nel padiglione di via Palestro a Milano (oltre a San Giovanni in Laterano e San Giorgio in Velabro a Roma): nel luglio 1993 morì suicida nel carcere di Rebibbia, si disse, per timore della vendetta di Riina. Anche il boss Francesco Pastoia, 12 anni dopo, si è tolto la vita in carcere a Modena per paura della punizione di Provenzano.

Don Ciccio da Belmonte Mezzagno, negli ultimi anni residente a Castelfranco Emilia, fu in grado di mostrare in diretta il potere delle talpe al servizio dei corleonesi. Come quando distrusse le cimici nel suo casolare di Misilmeri o disdisse all’ultimo momento (settembre 2004) un incontro con Provenzano e Mandalà poco prima del blitz della polizia. I segreti che custodiva, Pastoia se li è portati nella tomba. Arrestato nella sua casa di Castelfranco Emilia nel gennaio 2005, si è impiccato dopo aver letto le registrazioni di dialoghi in cui confessava delitti commessi senza autorizzazione e svelava il viaggio di Provenzano a Marsiglia.

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