“Qui parliamo di problemi veramente seri, di un paese che deve essere riformato . Se io fossi al suo posto non dormirei la notte . Ma non per le troie… per la situazione che c’è in Italia. Poi la gente comincia a tirare monete”. “Le stanno già tirando”, aggiunge l’interlocutrice. Non è uno squarcio di conversazione tra due spiriti critici da sempre antagonisti del berlusconismo, ma tra un signore intercettato, questa volta, per evasione fiscale dalla procura di Genova ed una signora sottosegretario, nonché “libera serva” accorsa alla masochista adunata degli irriducibili del Cav dove ha tuonato ancora una volta “aut Silvio aut nullus”.

Come avviene spesso del tutto casualmente, si accavallano in momenti cruciali testimonianze, racconti circostanziati,  report che provengono dalle fonti più lontane ed incomparabili tra loro, ma che confermano quello che sta platealmente accadendo nel paese, mentre continuano ad andare in onda le solite storielle e i cosiddetti leader parlano quasi sempre tra loro e per loro. Quelli disperatamente attaccati al premier urlano e mentono senza vergogna per resistere il più possibile; quelli dell’opposizione, con poche eccezioni, interloquiscono in modo sfumato per attutire le loro enormi responsabilità nell’aver sottovalutato da sempre l’uomo che ha fregato un intero paese, come titola The Economist di giugno, fresco di stampa.

Impossibile e ovviamente altamente offensivo nei confronti del glorioso Economist, che non è un avamposto antiberlusconiano, ma il punto di riferimento tradizionale del pensiero liberale anglosassone, paragonare la sua documentatissima analisi del berlusconismo e dei danni gravissimi provocati al paese con lo sfogo telefonico tra Flavio Briatore e Daniela Santanchè sul “premier malato come diceva Veronica” che continua imperturbabile i suoi bunga bunga, già anticipato dal Fatto.

Nella conversazione intercettata due mesi fa che andrà ad integrare il faldone a carico di Mora, Fede e Minetti, e pubblicata da Repubblica, i due fedelissimi, la cui sopravvivenza politico- economico- mediatica dipende direttamente da lui, constatano lo sfascio progressivo del paese che finirà per coinvolgerli, mentre le notti “selvagge”,  unico interesse del capo, insieme all’impunità,  continuano ad altro indirizzo. E, comprensibilmente si abbandonano allo sconforto (“Vabbè, ma allora qua crolla tutto”) o si affidano alla provvidenza (“Siamo nelle mani di Dio”).

Il numero dell’ Economist in edicola, ben 14 pagine di resoconti e analisi, individua nel bunga bunga style, nelle condanne per reati gravissimi contro la pubblica amministrazione coperte da prescrizione o evitate in extremis con infinite leggi ad personam (vedi depenalizzazione del falso in bilancio) e, nel disastro economico in cui è sprofondato il paese, tre elementi incontrovertibili di un bilancio politico nefasto.

E aggiunge, pur sottolineando un dato positivo in controtendenza come la nomina di Draghi alla Bce, che l’era berlusconiana proietterà la sua ombra lunga e rovinosa anche sugli anni a venire, quasi un implicito invito a non prolungare oltre l’effetto negativo.

A corollario di questo numero dell’Economist,  il precedente direttore Bill Emmot, accusato di tutto e di più per aver a suo tempo stigmatizzato il premier comeinadatto a governare e scagionato in due cause per diffamazione intentategli da Berlusconi, ha scritto su La Stampa: “Dieci anni dopo guardo a quella origine della mia nuova vita legata all’Italia con un misto di orgoglio e perplessità… Orgoglio perché gli organi di stampa devono battersi per principi importanti… Perplessità a causa del ruolo insolito e difficile assegnato in Italia ai critici e commentatori stranieri”. E si potrebbe aggiungere non solo a loro, ma a tutti quelli che non fanno i commenti contro l’evidenza dei fatti e non si adeguano a quello che Emmot definisce il dibattito “parrocchiale” dominante.

Puntualmente confermato dal tenore delle reazioni politiche alla copertina dell’Economist. Gianfranco Rotondi, ministro per l’Attuazione del programma, ha sentenziato: “L’Economist vale come il Corriere d’Irpinia. Me ne faccio un baffo, sono ispirati da giornalisti italiani falliti”. Enrico Letta (Pd), benché preoccupato per il discredito internazionale,  ha commentato così: “La violenza del titolo dell’Economist è purtroppo lo specchio di ciò che pensano all’estero”. Forse ha un problema nell’accostare i termini: la violenza non è nel titolo ma in una simile gestione del potere, e quello che pensano all’estero lo pensa anche gran parte dell’elettorato del Pd, benché lui continui a non accorgersene.

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