Quando si verifica un incidente in una centrale nucleare i confini servono a ben poco. Le particelle radioattive si liberano nell’aria, inquinano la terra e le acque. I venti le spingono a migliaia di chilometri di distanza dal luogo in cui si sono liberate. La fuga radioattiva diventa un problema globale: delle città, dei villaggi, delle nazioni confinanti, dell’intero pianeta. Al contrario, le procedure di monitoraggio per evitare nuovi incidenti sono in larga parte un affare nazionale. E continueranno ad esserlo per lungo tempo. E’ quello che sostiene un lungo approfondimento pubblicato martedì dal Financial Times. “L’industria del nucleare deve riassicurare le persone che gli errori di Fukushima non si ripeteranno”, scrive Ft, “ma anche che i sistemi e le procedure di controllo minimizzeranno il rischio di un’altra catastrofe, causata da altri fattori in un’altra parte del mondo”. Ed è proprio su questo secondo aspetto che iniziano i problemi. “Analisi recenti sulla sicurezza nucleare hanno messo in evidenza le debolezze di una serie di impianti in tutto il mondo”, continua Ft. Negli Stati Uniti, la Nuclear Regulatory Commission (NRC, commissione governativa per la regolamentazione del nucleare) ha condotto una “rapida valutazione” dei 65 reattori attualmente funzionanti negli USA e ha scoperto che almeno dodici siti avrebbero degli “issues”, dei problemi nei sistemi di sicurezza.

“Storicamente l’industria nucleare è sempre stata brava ad individuare i problemi, ipotizzando le possibili soluzioni, ma è stata molto meno preparata a mettere in atto le procedure necessarie per risolvere gli stessi problemi”, ha dichiarato a Ft Dave Lochbaum, ex funzionario della NRC e oggi attivista del gruppo ambientalista “Union of Concerned Scientists” (unione degli scienziati preoccupati), un comitato indipendente di circa 100 scienziati, tra cui 20 premi Nobel. Le cose si complicano poi a livello nazionale, dove ogni paese segue la sua strada. Pierre Gadonneix, ex amministratore delegato della francese Edf e presidente dell’associazione imprenditoriale World Energy Council, non usa mezzi termini: la situazione attuale, in cui la IAEA – Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica – invia raccomandazioni ai diversi paesi, che rimangono però i responsabili finali delle politiche di sicurezza, genererebbe “troppe differenze tra i diversi paesi”. E quindi, nel lungo periodo, sarebbe necessario promuovere “un livello di governance sovranazionale”. La Russia ha recentemente chiesto che gli standard della IAEA siano resi obbligatori. Ma i diversi paesi sono divisi. Molti esperti sono scettici sul fatto che la IAEA, la cui mission principale è il controllo della proliferazione nucleare, possa essere riconosciuta a tutti gli effetti come regolatore del settore. “La risposta – spiega il Financial Times – si potrebbe trovare in un sistema più rigoroso di autoregolamentazione, a livello nazionale”.

Come quello degli Stati Uniti dove, dopo l’incidente di Three Mile Island del 1979, si è introdotto un livello di supervisione straordinaria da parte dell’Inpo (Institute of Nuclear Power Operations, associazione di categoria dell’industria nucleare USA), che va oltre i controlli previsti dalla Nuclear Regulatory Commission (NRC). “Gli ispettori di Inpo controllano e danno un rating a tutte le centrali negli Stati Uniti”, spiega Ft. “I rating non sono pubblicati, ma sono trasmessi all’NRC e le compagnie assicurative li usano per calcolare i rischi della politica di gestione degli impianti. Le centrali che ottengono rating inferiori alla media possono incorrere in richiami e sanzioni”. Ma la sanzione più dura è l’incontro annuale dell’Inpo ad Atlanta, dove “i gestori degli impianti con un rating basso sono obbligati a spiegare davanti a tutti i rappresentanti dell’industria nucleare americana le strategie che intendono adottare per porre rimedio ai loro errori”. Una ammissione pubblica di colpa, che però funziona solo negli Stati Uniti. “E’ un modello che dovrebbe essere globalizzato attraverso la World Association of Nuclear Operators (Wano, associazione mondiale degli operatori nel nucleare, con sede a Londra), l’equivalente dell’Inpo a livello internazionale”, spiega Craven Crowell di Oliver Wyman, una società di consulenza specializzata nel risk management. La Wano è già impegnata nel monitoraggio degli impianti, ma non attribuisce rating e non ha alcuna possibilità di intervenire con azioni correttive o sanzioni se rileva problemi nei sistemi di sicurezza.

“Il sistema americano non è perfetto”, ha dichiarato a Ft Dave Lochbaum, della Union of Concerned Scientists, “ma la Inpo sta facendo un buon lavoro. Le chiusure degli impianti per motivi di sicurezza negli Stati Uniti sono calate da 2,5 volte all’anno per ogni reattore (in media) nel 1985 a 0,1 nel 2007, mentre a livello internazionale le chiusure non pianificate sono scese da 1,8 all’anno nel 1990 a 0,5 nel 2008”. Ma adottare a livello globale il modello di supervisione americano sarà molto difficile, se non impossibile. “Molti paesi si dimostreranno riluttanti ad aprire le porte ai controlli internazionali”, spiega Seth Grae, amministratore delegato di Lightbridge, una società americana che sviluppa tecnologie per il combustibile nucleare. “In molti paesi il settore energetico è controllato dai governi e molti di questi governi non sono propensi ad avere ispettori in casa che gli dicano come dovrebbero fare le cose”. E anche se ormai quasi tutti gli operatori dell’industria nucleare sono d’accordo sulla necessità di rafforzare i poteri della World Association of Nuclear Operators, la strada verso un sistema di monitoraggio comune a livello mondiale sarà lunga e tutta in salita.

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