Le maggiori società industriali quotate in Borsa a Milano hanno chiuso il 2010 (analisi R&S-Sole24Ore) con un aumento medio del margine operativo netto del 19 per cento, e dei profitti del 29 per cento. Il margine della Fiat sale del 108 per cento ma la sua quota di mercato è scesa, in Italia, del 30 per cento. Marchionne, in altre parole, ha perso un terzo delle vendite, ma ha raddoppiato i profitti.

Ecco: il dato della politica italiana è tutto qua. Questi diciassette anni non sono stati gli anni di Berlusconi (anche), sono stati principalmente gli anni degli imprenditori. Elegantemente col centrosinistra, rozzamente con le varie destre, la Confindustria ha gestito il Paese ininterrottamente e a modo suo. L’industria (che rende meno della finanza) se n’è andata; il precariato ha sostituito il lavoro; è stato privatizzato, cioè regalato a privati, tutto il privatizzabile tranne (finora) i carabinieri. Le principali catastrofi sono state portate a compimento dalla destra ma cominciate, con le migliori intenzioni, da noialtri: la “riforma” dell’università comincia negli anni ’90, e allora non c’era ancora la Gelmini.

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Gli italiani, a Milano e a Napoli, hanno votato (o non sono andati a votare, come hanno fatto molti elettori di destra) soprattutto su questo. Hanno votato bene, perché i partiti e i politici non sono tutti uguali; c’è una gran differenza fra un teppista alla Bossi e un brav’uomo come Bersani. Ma di Fiat, nel complesso, non s’è parlato.

C’è nostalgia per la Repubblica, per tempi di minore ferocia e più civili; gli operai vanno trattati meglio, la mafia è una cosa brutta, l’Italia deve restare unita, non bisogna portarsi a letto le ragazzine. Ma di precarietà e di fabbrica s’è parlato – concretamente – molto poco. A tutt’oggi nessuno ha preso concretamente posizione contro Marchionne e se qualcuno parlasse di nazionalizzare la Fiat (cosa che in Germania sarebbe stata probabilmente presa in seria considerazione) verrebbe preso per matto o peggio per comunista.

Eppure, quello è il cuore di tutto. La Fiat, nel giro di pochi mesi, ha completamente distrutto il sistema industriale italiano, sia nei diritti che nella produzione, e il suo esempio è stato entusiasticamente seguito da quasi tutti. La Bialetti, poche settimane fa, ha delocalizzato non più in Cina (cosa ormai ”normale”) ma in India: un’altra ferita che si apre, e che verrà allargata.

Secondo una della principali società di consulenza finanziaria, l’Italia sarà superata economicamente dall’India prima del 2030; e poco dopo dal Brasile, e molto prima dalla Cina. Con le nostre industrie, col nostro know-how, con i nostri capitali. Noi ci accaniamo contro gli immigrati – falso problema – e mostriamo molta e nuova ferocia in questo; ma fra una generazione o meno, continuando così, sui gommoni rischiamo di finirci noi.

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Questo referendum è un’elezione politica, come le amministrative di Napoli e Milano; è inutile nascondere la realtà con un dito. Si vota pro o contro il governo, in primo luogo; si vota – ma solo indirettamente, per ora – pro o contro il mantenimento del catastrofico sistema attuale, che non è più capitalismo ma qualche altra cosa. Sarà una decisione difficile, e per prenderla ci vorranno degli anni; ma il processo, a mio parere, è già cominciato e la gente, anche se non ha le parole, comincia ad averne la percezione e il sentimento.

La sinistra, per caso (per amore o per forza, a Napoli e a Milano) ha raggiunto un assetto che a me sembra vincente, pur nella sua ambiguità sostanziale. Il Pd fa da bastoncino dello zucchero filato, e attorno gli si attorciglia la società: quella di Vendola, quella di Di Pietro, quella di Beppe Grillo (sì, anche quella, alla base). Tutti questi pezzi sono vari e rozzamente rappresentati (il personalismo dei tre suddetti, da solo, meriterebbe lunghe meditazioni) ma nel complesso funzionano. Bersani, persona seria e non gonfia di sé come Veltroni, ha capito il gioco e si lascia portare.

Questo significa la fine di Berlusconi, lo sfascio del suo asse sociale (nessun candidato leghista, a Milano, ha preso più di qualche decine di preferenze, tranne un paio di caporioni) e l’individuazione plateale, non nascondibile, di una maggioranza nuova. Quest’altra maggioranza in parte è di sinistra, in parte ha semplicemente paura. Su questo giocherà la Confindustria per fare il suo governo (probabilmente Tremonti), che sarà “d’unità nazionale”. Ma anche Badoglio lo era. Non durò a lungo perché la sinistra d’allora seppe mettere insieme la massima unità e “moderazione” ideologica con la massima radicalità nella lotta (“non aspettiamo più, diamo addosso ai tedeschi”).

Allora la sinistra era semplice, concentrata quasi tutta in un solo (rudimentale) partito. La sinistra di ora (oh, se volete chiamarla in qualche altro modo fate pure, è lo stesso) è complicata, è profonda, è difficile, e soprattutto non avrà mai più un unico partito – per fortuna. In compenso, ha l’internet. E questo dovrebbe bastare.

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Fiat o non-Fiat, mafia o non-mafia, non sono le fantasie di qualcuno, sono le domande profonde a cui ciascuno di noi gente comune deve ormai rispondere, nel corso della sua vita quotidiana. La politica è sempre nata da queste domande, in realtà. E così alla fine succederà anche ora.

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