Se ai giornalisti si può rimproverare qualcosa, in questo periodo storico di estrema difficoltà per la libertà di stampa e di informazione, è di subire spesso passivamente l’aggressione giudiziaria cui sono costantemente sottoposti.

Per uno strano ed incomprensibile meccanismo tutto italiano, la maggior parte dei professionisti della carta stampata e del tubo catodico subiscono infatti periodiche azioni giudiziarie dal carattere improbabile e temerario (in alcuni tribunali le cause per diffamazione si concludono con un rigetto circa nel 90-95% dei casi), ma si limitano quasi sempre ad una mera difesa dalle accuse (spesso alquanto fantasiose) che vengono loro rivolte, peraltro sovente precedute da diffide e intimazioni dal carattere diffamatorio (queste sì!) da parte di avvocati che interpretano la professione forense in modo che desta non poche perplessità.

Vi sono addirittura molti giornalisti che, per paura delle controversie legali cui sono puntualmente soggetti, intestano i propri beni ai parenti, pur senza aver mai subito una condanna in tanti anni di onorata professione. Ovvio che una simile aggressione giudiziaria è in grado, con il tempo, di minare la libertà stessa del giornalista, specie se non lavora per grandi testate in grado di farsi carico delle continue difese; ciò anche in considerazione del fatto che spesso i giudizi, ancorché favorevoli, non rendono pieno ristoro delle spese legali.

Da giurista ed intellettuale prestato occasionalmente al mondo dei blog, credo che sia necessario un cambio netto di rotta: quando una persona scontenta della informazione data da un giornalista si permette, per il tramite di un avvocato, di aggredire il professionista innanzi alla sua redazione, ai suoi colleghi e alla sua testata con atti sostanzialmente offensivi (nei toni) e con affermazioni false nella sostanza, che si traducono puntualmente in fastidiose azioni giudiziarie, è doveroso, a mio avviso, reagire con azioni giudiziarie e con esposti al consiglio dell’Ordine, affinché richiamino i legali ai propri doveri disciplinari, e non limitarsi a passive difese dall’esito favorevole (e spesso scontato) innanzi ai giudici.

Solo in questo modo si potrà arginare un fenomeno che ormai passa per essere la normalità: il passaggio per le vie legali “sempre e a prescindere”. L’effetto inibitorio contro il giornalista è difatti comunque garantito, dato che espone a stress esistenziali e spese legali e, di certo, non giova alla libertà della informazione.

È quindi un preciso dovere dei giornalisti, secondo me, agire “preventivamente” in via giudiziaria (e disciplinare) contro chi infanga ingiustamente o chi aggredisce con liti improbabili l’operato dei professionisti dei media. Anche in questo sta la responsabilità della categoria rispetto al dovere di offrire una informazione libera. Questa è la vera colpa attribuibile oggi ai giornalisti, e, forse, anche ad un atteggiamento troppo permissivo da parte della magistratura.

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