Difficile aggiungere qualcosa di originale alla valanga di commenti sui risultati di lunedì. Ma vale la pena di sottolineare che le elezioni su cui Berlusconi si è giocato il biglietto per Antigua (o altra località meno amena, tipo la Bielorussia), segnano il culmine di un’opposizione condotta quasi sempre fuori dal Parlamento con decine di mobilitazioni nelle piazze, dal Popolo Viola ai precari, dagli insegnanti ai metalmeccanici, e via via dalle donne,  Articolo 21, studenti universitari, terremotati e tanti altri. Non c’è stata settimana senza che da qualche parte montasse una protesta di chi non si rassegnava, accuratamente cancellata dai teleschermi e spesso ignorata dal Pd, ma che dalla rete e dai pochi media fuori dall’orbita di regime, riusciva a perforare la cortina dei silenzi di regime.

Pietro Nenni lamentava che ai suoi comizi le piazze fossero piene, ma alla prova dei fatti le urne si rivelassero vuote. Questo fenomeno è stato indubbiamente una costante della vita politica italiana dalle grandi manifestazioni degli anni ’60 e ’70 fino, in parte, ai girotondi. Questa costante ha costituito l’argomento principe (o meglio, il disco rotto) squadernato dalle grandi menti volpine del Pd, dalla corte dei miracoli veltroniana (ve la ricordate la strategia dell’Innominato? il Leader dello Schieramento a noi Avverso …) e da ambigui calabraghe (non ultimo il rottamatore fiorentino) che anelavano a far da zerbino sulla soglia di Arcore.

I ballottaggi rappresentano indubbiamente la sconfitta bruciante (comunque non ancora definitiva) di Berlusconi, ma soprattutto di quei maggiorenti del Pd che per alcuni lustri hanno messo sotto stress le laringi con l’antiberlusconismo che non paga, il giustizialismo perdente, il dialogo che viene premiato, i moderati spaventati dai toni forti, il collaborazionismo responsabile, la necessità di evitare lo scontro frontale, l’esigenza di abbassare i toni, la condivisione delle riforme, insomma su tutto l’arsenale retorico dispiegato per giustificare la resa e negoziare il prezzo (di saldo) dell’acquiescenza, fosse anche la presidenza del Copasir che vale meno delle mutande di Ferrara.

Il periodo che va da Letizia (Noemi) a Letizia (Moratti), passando per il Partito dell’Amore, le riforme “epocali” e le “scosse all’economia” ha eretto un ponte solido, forse per la prima volta, tra piazze ed urne. Ed è un elemento di sconcerto e panico per mezzo Pd (che ha disertato la campagna elettorale) abbarbicato alla strategia dell’intesa con chiunque si trovi a passare, persino il sedicente terzo polo (praticamente disintegrato).

Ma così come Berlusconi non si arrenderà – lo ha detto chiaramente ieri annunciando di triplicare gli sforzi (nonché presumibilmente decuplicare i soldi e le cadreghe per Responsabili e Leghisti) – non si daranno per vinti nemmeno i Latorre (quello dei pizzini), i Letta (che sdoganava la pretesa di Berlusconi di defendersi dai processi), i Follini (“il maggior regalo che il Pd rischia di fare a Berlusconi è quello di arroccarsi su posizioni pregiudiziali”), gli aspiranti Calearo, fino ai bassoliniani attratti da Lettieri (come le falene dalle fiamme). Anzi percepiscono un profumo inebriante di inciucio insinuarsi – esaltante, quasi afrodisiaco – su per le froge frementi.

Infatti appena il governo Berlusconi franerà, la strada sarà spianata a tutta la ridda di ipotesi immaginabili su governi tecnici, istituzionali, di decantazione, di tregua, di responsabilità (Scilipoti docet) alla cui sola evocazione già trepidano di gioia le retroguardie superstiti della Belle Epoque democristiana da Pisanu a Franceschini, da Formigoni alla Melchiorre (resasi disponibile su piazza bruciando tutti sui tempi), senza dimenticare Casini e Buttiglione con i neo rincalzi di Rutelli e i brandelli dell’armata brancaleone di Fini.

Questione di nanosecondi, appena Berlusconi metterà il naso fuori dal Quirinale con la sagoma della suola leghista stampato sulle parti flaccide, e ci accorgeremo, una volta di più, che sui colli romani la madre dei bicameralisti è sempre incinta.

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