Il Tar e il Consiglio di Stato sono le massime istituzioni giudiziarie italiane in materia di trasparenza amministrativa. Loro è la competenza, tra l’altro, sui ricorsi per l’accesso agli atti, sulla materia disciplinare relativa alle carriere più prestigiose, sull’operato delle amministrazioni pubbliche.

Logico quindi aspettarsi, quantomeno, una trasparenza analoga a quella richiesta alla altre amministrazioni. Invece non è proprio così, almeno nella materia disciplinare. Il problema è stato recentemente sollevato anche dalla trasmissione Report. Il prossimo 31 maggio 2011 il Consiglio di Stato dovrà infatti pronunciarsi (ric. 8053/2010) sul diritto di conoscere i procedimenti disciplinari proposti… nei confronti degli stessi consiglieri di Stato e dei magistrati Tar. Per completezza è bene dire che il Csm (il corrispettivo organo di autogoverno dei pm e dei giudici civili e penali) ha addirittura una pubblicazione ufficiale in materia, proprio per ragioni di trasparenza.

Ad onor del vero, l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi, obbligato da una sentenza del Tar che ne censurava il diniego, è stato costretto ad esibire i precedenti disciplinari, ma si è limitato a consentire l’accesso solo a quelli per i quali era stata esercitata l’azione disciplinare. Per quelli immediatamente archiviati, invece, l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi ha ritenuto, forse contraddittoriamente (perché non far conoscere i comportamenti che dovrebbero essere meno gravi?) di non doverli consegnare, proponendo addirittura appello avverso la sentenza del Tar. L’appello è stato proposto anche a nome del presidente del Consiglio di Stato, Pasquale de Lise, già balzato agli onori della cronaca per le intercettazioni della c.d. cricca, da cui emergevano rapporti tra lui, suo cognato (avv. Leozappa), Balducci & co. Per tali fatti, però, non si sa se sia stato mai aperto un accertamento disciplinare nei confronti del presidente de Lise. Se potremo saperlo, quindi, sarà proprio il Consiglio di Stato da lui presieduto a dircelo.

Una cosa, comunque, è certa. Tra quelle carte inaccessibili vi è una pratica (proposta dal sottoscritto che, quindi, ne ha conoscenza) con la quale il Cpga (Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa) ha ritenuto che non costituisce causa di astensione (nemmeno facoltativa) – e quindi non costituisce illecito disciplinare – l’aver deciso delle cause in cui una delle parti era assistita da un avvocato che, al contempo, assisteva anche gli stessi giudici che decidevano (in una diversa controversia, a titolo personale). Insomma, si può essere al contempo clienti e decidere le cause del proprio avvocato. Interessante anche il percorso logico che i colleghi incolpati hanno seguito, per giustificare il proprio operato: vi è chi ha sostenuto che il mandato dell’avvocato riguardasse solo la costituzione in giudizio, chi ha ritenuto che il rapporto di credito-debito fosse irrilevante, chi, più semplicemente, ha fatto rilevare che molti altri consiglieri di Stato vertevano in tale condizione.

Chissà quale è stata la motivazione che ha spinto la commissione del Cpga all’epoca presieduta dal prof. Nicolò Zanon, che già aveva deliberato per la proposta disciplinare, a richiamare, con prassi davvero inusuale, la pratica in commissione ed archiviarla immediatamente. Di certo, però, tra i membri del Cpga vi era (e vi è) probabilmente il record-man di questa situazione, il consigliere Luciano Barra Caracciolo, che, assistito da anni dall’avv. Angelo Clarizia, ne ha deciso decine di cause in pendenza di mandato.

Francamente, da giudice amministrativo, mi piacerebbe sapere con maggiore certezza cosa mi è permesso fare e cosa no, e credo che una assoluta trasparenza in materia disciplinare sarebbe auspicabile, sia per ragioni di trasparenza nei confronti dei cittadini cui la Giustizia si rivolge, sia per la credibilità dell’istituzione, anche per non suscitare un’inevitabile domanda: cosa vi sarà mai tra quelle carte per sempre chiuse nei cassetti e perché tanta segretezza?

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