Guai a credere che la nomenklatura del Pd capisca i segnali dell’elettorato. Se li capisse, del resto, non sarebbe leader del Pd.

Massimo D’Alema, in una leggendaria intervista di ieri a La Stampa, ha dimostrato la sua instancabile attività di trojan horse dell’hardware Sinistra Italiana. Ogni volta che tira aria di vittoria, lui piazza un attacco virale e formatta tutto il sistema. E’ così da vent’anni e ancora lo consultano per chiedere consigli su come la sinistra possa trionfare. Come chiedere ad Andreas Seppi l’abracadabra per vincere Wimbledon.

Il primo dato, inequivocabile, delle elezioni di domenica scorsa è che il Pd ha vinto e stupito laddove non si è comportato da Pd. I grandi eventi sono stati gli exploit di Milano e Cagliari, dove è in vantaggio un candidato di Sinistra e Libertà, e Napoli, dove è andato al ballottaggio un esponente dell’Italia dei Valori. A Milano e Cagliari, il Pd ha ottenuto un innegabile ottimo risultato di partito, ma lo ha fatto anche e soprattutto grazie alla coalizione con Idv e Sel. Il contemporaneo exploit del Movimento 5 Stelle, unito al balbettante risultato del famigerato e inutilmente mitizzato Terzo polo, che ha deluso ovunque tranne a Napoli (dove, ahinoi, rischia di risultare decisivo al ballottaggio appoggiando il rutilante Lettieri), dimostrano come il centrosinistra sfondi quando non si vergogna di essere di sinistra e la smette di spostarsi maldestramente al centro.

Non ci vuole uno scienziato per capirlo, ma D’Alema – che è ontologicamente “intelligente”: guai a chi non condivide – ha tratto dalla tornata elettorale ben altre indicazioni. Sia così fatta una seria esegesi dell’intervista di Federico Geremicca. Poi, dopo la seria esegesi, ci si dia tutti all’alcol. O alla cedrata guatemalteca corretta con l’Ardbeg.

Dal Vangelo Secondo il Dalai Lema:

«Lei dice così perché, naturalmente, non ha letto Mao Tse-tung. Il quale portava spesso l’esempio delle bacchette che i cinesi usano per mangiare: una si muove per prendere il cibo, ma l’altra resta ferma».
L’intervista è appena cominciata e D’Alema sciaborda subito tutta la sua simpatia contagiosa. Al giornalista, trattato ovviamente da paria minus habens, il Dalai Lema ricorda stizzito che Lui solo possiede il Verbo. Rapportandosi, umilmente, a Mao Tse-tung. Riguardo alla metafora delle bacchette, ammesso che i cinesi sappiano padroneggiarle democraticamente, il Pd selon D’Alema ne muove una per prendere il cibo (che nel frattempo cade a terra perché la stretta è timida) e l’altra per punzecchiarsi gli zebedei. Come Tafazzi con la bottiglia.

«La tattica, la propaganda, le iniziative possono cambiare: ma la strategia no, quella non può cambiare ogni settimana».
Questo è vero: non avendo strategie, il Pd non soffre la fregola di dover cambiare ogni settimana la propria prospettiva. Essendone pressoché sprovvisto.

«Oltretutto sarebbe curioso che un partito che ha affrontato le elezioni sulla base di una determinata proposta strategica, la cambiasse subito dopo a causa del fatto che le ha vinte. In generale accade il contrario».
“In generale accade il contrario”, ma se al Pd capita per disgrazia di vincere un’elezione, come minimo si sente confuso. Vittima di un devastante jetlag. A quel punto, giù di melatonina. E di masochismo. In questo senso, l’intervista del Dalai Lema è un meraviglioso assist a Moratti e Lettieri. Forse, continuando così, riescono a perdere anche questa. Go Maximo Go.

«Il centrodestra non ha perso le elezioni per i toni duri scelti. E’ una tesi autoconsolatoria: Berlusconi ha sempre usato toni pesanti, essendo un estremista populista».
Passaggio condivisibile, che però appartiene alla ormai nota Teoria del Caos. Se parli ogni giorno, prima o poi qualcosa di condivisibile lo dici. In fondo anche Mussolini ha fatto i ponti, i treni erano puntuali e la Maremma è stata bonificata (cit).

«Le elezioni le abbiamo vinte noi, non la sinistra radicale o qualcun altro. Sostenere il contrario, come si continua a fare, è solo sciocca propaganda».
Qui c’è tutto il dalailemismo. La boria, la supponenza, la miopia. Una sorta di apocalisse perpetua. Se lo critichi, sei uno sciocco. Se il Pd vince, è merito suo. Se il Pd perde, è colpa della sinistra radicale. Milano e Napoli hanno premiato due figure detestate, o comunque inizialmente non gradite dai vertici del Pd, e il Dalai Lema adesso dice che le elezioni le hanno vinte loro (cioè lui). Massimo D’Alema ha a cuore l’onestà intellettuale come un macellaio un vitellino da latte.

«Piero (Fassino, Nda) è stato generoso: farà bene, ne sono sicuro. In più, il suo successo è un buon segnale per noi della vecchia guardia».
In compenso, è un segnale devastante per chi auspica una politica nuova. Torino, per il Pd, equivale a una casa di riposo per politici bolliti (ci avevano provato anche con Rutelli a Roma: i risultati furono leggendari). Il fatto, poi, che a Torino avrebbe vinto anche Don Backy in ciabatte, è per D’Alema irrilevante.

«Sel è a pieno titolo una responsabile forza di governo. Le primarie e poi il risultato di Cagliari, alla fine si sono rivelate una bella cosa. E voglio dirlo».
Vuole dirlo. Adesso che ha vinto, però. Quando perse quelle primarie, con candidati ferocemente scelti da lui, i vari Pisapia li avrebbe strozzati con quei baffetti degni della parodia di uno statista.

L’idea bipolare è ormai radicata nella testa degli elettori, e a volte la “terzietà”, se è fine a se stessa, si paga“.
I grillini al dieci percento nella città (teoricamente) più rossa d’Italia, per il Dalai Lema sono un dato marginale. Il bipolarismo è radicato nella testa degli elettori. Come il cuoio capelluto è radicato nella testa di Sallusti.

«Ripeto: ho grande rispetto per la discussione in corso nel Terzo polo, ma chiedo loro in che prospettiva strategica si pongono. Se si vuole superare il berlusconismo, bisogna assumersi delle responsabilità. E non mi riferisco certo a questi ballottaggi».
Sottotesto: il futuro della sinistra è un’alleanza col Terzo Polo. Cioè il futuro della sinistra è nel non essere di sinistra. C’mon. Lo dice uno che, fino all’altro giorno, credeva nel nucleare (uh ops) e teorizzò quel gran capolavoro chiamato Bicamerale (c’est vrai, ricordarlo a distanza di anni è scorretto. Per questo va ricordato). Ogni volta che il Dalai Lema apre bocca, Giuliano Ferrara mangia un felafel dalla gioia. Con risultati adiposi abbastanza rilevanti.

«Il voto rafforza la sua leadership (di Bersani, Nda) e premia uno stile politico. Non è andato dietro a Berlusconi chiedendo un referendum su se stesso, e ha fatto bene. Che Bersani oggi sia molto più forte è un vantaggio per tutti: elimina dal campo tanta confusione e favorisce l’unità del centrosinistra“.
Attenzione: questo è vero. A Bersani va riconosciuto. Ultimamente ha un cipiglio inaspettato, fa le battute stronzine, prende in giro gli avversari. Sboroneggia con medio agio. Negli ultimi mesi si è come ridestato da un antico torpore. Bravo Bersa. Ora manca solo che, dopo aver espugnato Milano, vada in tivù e dica una cosa tipo: “Berlusconi, socmel e poccia qua”. Sarebbe bellissimo.

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