Israele ritorni ai confini del 1967”. E’ il dato più significativo – in gran parte inatteso – del discorso che Barack Obama ha pronunciato al Dipartimento di Stato. La richiesta di un ritorno ai confini che esistevano prima della guerra dei Sei Giorni – quando Israele occupò Gerusalemme Est, la Cisgiordania e Gaza – è infatti un importante cambiamento di rotta rispetto alla più recente politica americana. Non ci può essere vera pace se c’è “un’occupazione permanente”, ha detto Obama, che tra poche ore riceverà a Washington il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Israele ha più volte affermato che il ritorno ai confini del 1967 precluderebbe i futuri negoziati. La nuova dichiarazione del presidente Usa rischia quindi di dispiacere ai governanti israeliani e di raffreddare ulteriormente i rapporti tra Washington e Gerusalemme.

La proposta del presidente americano è venuta all’interno di un discorso che molti commentatori americani avevano già definito “il piano Marshall per il Medio Oriente”. Dopo l’uccisione di Osama bin Laden, di fronte a una serie di rivolte che hanno spazzato via due dittatori, e che promettono di cacciarne altri, l’amministrazione americana ha avuto bisogno di riassumere la propria posizione, equilibrando necessità di sicurezza e diritti umani, interessi geopolitici e ascolto “delle grida di dignità umana che attraversano tutta la regione”. Abbiamo la possibilità di mostrare “che l’America valuta la dignità di un venditore di strada più che il potere brutale di un dittatore”, ha detto Obama, con riferimento a Mohamed Bouazizi, il tunisino diventato il simbolo delle rivolte arabe dopo essersi dato fuoco per l’ennesima brutale confisca delle sue mercanzie.

Ai milioni di giovani che chiedono democrazia, libertà, lavoro, migliori condizioni di vita in molti Paesi arabi, Obama ha assicurato l’appoggio americano e qualcosa di più. Due miliardi di dollari in cancellazione dei debiti e prestiti garantiti sono stati promessi all’Egitto. Una serie di aiuti –accordi commerciali, investimenti, nuovi prestiti – toccheranno alla Tunisia. Il cammino della modernizzazione economica dovrà essere secondo Obama accompagnato da misure politiche. “Bisogna ampliare il nostro approccio” ha detto il presidente, riconoscendo che la pura lotta contro il terrorismo e il controllo degli arsenali nucleari “non servono a riempire gli stomaci o a favorire la libertà di espressione”, e danno al tempo stesso l’impressione di un’America ripiegata unicamente sul proprio interesse.

Sul piano politico, Obama ha chiesto al presidente siriano Bashar al-Assad, già punito con una serie di sanzioni economiche, di “condurre il suo Paese verso la democrazia, o levarsi di mezzo”. Analoga richiesta è stata rivolta a chi, in Yemen, Bahrein, Libia, continua a massacrare la popolazione e a compiere aperte violazioni dei diritti umani. Poco prima del discorso del presidente, il consigliere per la sicurezza nazionale John Brennan aveva telefonato al presidente dello Yemen, Ali Abdullah Saleh, chedendogli di accettare la proposta della Lega Araba di sue dimissioni entro un mese.

La parte sicuramente più importante del suo discorso, e quella che promette di avere più ripercussioni politiche, è però la proposta che Israele torni ai confini del 1967. Obama l’ha inquadrata in una serie di condizioni più generali: assicurazioni sull’appoggio incondizionato a Israele, necessità che i palestinesi rinuncino definitivamente alla violenza, richiesta che Abu Mazen prenda le distanze da Hamas. Ma quella proposta, da sempre osteggiata da Israele, da anni messa da parte dai presidenti americani per timore di irritare Gerusalemme, promette ora di dare una forte scossa al processo di pace in Medio Oriente, oltre che aprire una nuova fase di polemiche con i repubblicani a Washington.

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