Tante campagne anti-alcol ma poi la stragrande maggioranza degli alcolisti in Italia rimane solo di fronte alla sua dipendenza. Nel nostro paese si parla tanto di emergenza alcol e di allarme “sballo” fra i giovani, ma nel concreto si fa davvero poco. La solita storia: troppe parole e pochi fatti. A pagarne lo scotto non sono solo gli “schiavi dell’alcol”, ma tutti gli italiani che si trovano a dover pagare – tra spese totali e sociali dovute all’abuso di alcol (mortalità, perdita di produttività, assenteismo, disoccupazione, costi sanitari, etc.) – circa 53 miliardi di euro all’anno. Per intenderci questa cifra rappresenta ben il 3,5% del PIL del 2010. In questo caso non fare costa più del fare.

A fronte di un milione e mezzo di alcolisti, in Italia appena 100mila sono in trattamento terapeutico. E di questi solo 23mila assumono un farmaco. Eppure, l’alcolismo è a tutti gli effetti una malattia cronica che “si può e si deve curare”, come ha spiegato presidente di FeDerSerD, nonché direttore dipartimento Dipendenze Asl Milano 2, Alfio Lucchini, in una conferenza stampa organizzata da Merck Serono per presentare il farmaco “acamprosato” che si è dimostrato efficace contro il desiderio incoercibile di bere e che sarà disponibile dal 31 maggio a carico del Sistema Sanitario Nazionale.

Due sono i motivi dietro i quali solo una piccolissima percentuale, il 10%, di alcolisti si cura. “Da una parte – ha spiegato Lucchini – le difficoltà di disvelamento di questa dipendenza tra le più democratiche, insieme al tabacco, che riguarda uomini, donne, giovani e anziani; dall’altra le difficoltà prescrittive dei medici per la limitata disponibilità, finora, di trattamenti idonei nel medio termine”. Senza contare che negli ultimi anni sta diventando sempre più diffusa la tendenza alla “poliassunzione”, una modalità di consumo molto pericolosa che consiste nel connubio di alcol e anfetamine o di alcol e cocaina.

L’emergenza poi non riguarda soltanto gli adulti e gli uomini, ma anche i giovani, i giovanissimi e le donne. In Italia sono almeno 30.000 l’anno i decessi per cause alcol-correlate e l’alcol rappresenta la prima causa di morte tra i giovani fino all’età di 24 anni. Il consumo di alcol non solo produce danni al bevitore stesso, ma anche alla famiglia e al contesto sociale allargato in cui vive. L’alcol può indurre infatti a comportamenti violenti (1 omicidio su 4 e 1 suicidio su 6 è alcol-correlato), abusi, abbandoni, perdite di opportunità sociali, incapacità di costruire legami affettivi e relazioni stabili, invalidità, incidenti sul lavoro e sulla strada. Secondo quanto reso noto dall’Istituto Superiore di Sanità, attualmente in Europa tra 5 e 9 milioni di bambini vivono in famiglie con problemi di alcol.

“I dati epidemiologici – ha spiegato Mauro Ceccanti, professore del Centro di Riferimento Alcologico della Regione Lazio – ci informano che una parte notevole della popolazione italiana ha problemi e patologie alcol-correlati; quello che è poco noto è che le persone che condividono gli effetti dell’azione dell’alcol e vengono, pertanto, definite ‘alcolisti’ o ‘alcol dipendenti’, sono il prodotto di una complessa interazione ambiente-genotipo, in cui l’alcol è l’unico elemento sicuramente comune”. Questo, secondo l’esperto, ha comportato un’obiettiva difficoltà nell’individuazione di terapie farmacologiche efficaci quando si è tentato di intervenire sulla dipendenza da alcol, senza considerare le differenze dei fattori genetici e ambientali che intervengono nella genesi di quello che noi chiamiamo “alcolista”.

I nuovi farmaci, come “acamprosato”, agiscono da supporto nella lotta alla dipendenza e devono essere sempre associati ad un supporto psicosociale o psicoterapeutico. E in questo senso nel nostro paese c’è ancora tanto da fare: dal migliorare l’accesso alle strutture terapeutiche degli alcol-dipendenti al favorire il difficile svelamento del fenomeno «di un problema che non si risolve da soli o in famiglia ma tramite strutture specialistiche», come ha sottolineato Lucchini. «Oltre al necessario balzo culturale, occorre allargare la consultazione e l’accesso ai servizi di base a più agenzie territoriali; ciò liberebbe risorse per la continuità di cure specialistiche», ha concluso.

di Valentina Arcovio

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