Cosa hanno in comune Giulio Cesare, Robin Hood, Sansone, Pippi Calzelunghe, l’indomabile Angelica, Franco e Ciccio, Totò e persino il delfino Flipper? Difficile da crederci, ma tutti hanno avuto a che fare almeno una volta con vascelli dalle nere vele e arrembaggi in variazioni spassose di quel cinema popolare che da Il pirata nero (1926) con Douglas Fairbanks o dal Capitan Blood (1935) con Errol Flynn arriva fino ai Pirati dei Caraibi della Disney.

Suonerà strano ai più giovani, abituati agli incassi da capogiro del ciclo reso celebre da Jack Sparrow, ma il sottogenere piratesco ha avuto su di sé una maledizione durata ben oltre il tempo di una luna. Sebbene ora siano in molti ad aspettare il quarto capitolo – Oltre i confini del mare, ieri a Cannes, da mercoledì nelle sale – della fortunata serie marchiata Jerry Bruckheimer, prima dell’inaspettata comparsa di capitan Depp nel 2003, nessun produttore assennato avrebbe scommesso mezzo barile di rum scadente su galeoni fantasma, isole del tesoro e salti dalla passerella.

Negli ultimi decenni del secolo scorso, infatti, le cocenti delusioni del Pirati (1986) di Polanski e del Corsari (1995) con Matthew Modine e Geena Davis confermavano il filone come totalmente bollito, praticamente inattuabile nel nuovo millennio. In seguito all’altro flop del disneyano Il pianeta del tesoro (2002), ecco però l’epifania del pirata rock di Johnny Depp, un’icona istantanea che, dopo il primo capitolo di rodaggio, porta i successivi La maledizione del forziere fantasma e Ai confini del mondo al quarto e al nono posto dei maggiori incassi della storia del cinema.

Coi suoi occhi bistrati di nero, la camminata barcollante da ubriaco, il sorrisetto tra l’ebete e il lascivo e le mani sempre in movimento, Sparrow è fuor di dubbio una delle pochissime maschere cinematografiche che rimarranno degli ultimi anni, e non solo il volto che sancisce la pace tra il pubblico e tutti i filibustieri del cinema. Partendo da Keith Richards – il chitarrista dei Rolling Stones che nella serie interpreta il padre di Jack –, l’irresistibile pirata costruito da Depp è un miscuglio di citazioni della storia del costume e del cinema, una celebrazione dell’ambiguità e della creazione che attraversa generi e media, alzando di un bel po’ lo standard dei cosiddetti film per ragazzi.

Delle innumerevoli pellicole che hanno preceduto la rotta di Sparrow si ricorda con particolare piacere Il cigno nero con Tyrone Power, ispirato ad un romanzo di quel troppo dimenticato Rafael Sabatini dalle cui opere sono tratte anche le sceneggiature di Capitan Blood, Il corsaro e Lo sparviero del mare. Ancora il sorprendente Ciclone della Giamaica, il rocambolesco Nel mar dei Caraibi, gli irresistibili e pirotecnici Il corsaro dell’isola verde con Burt Lancaster e Il pirata Barbanera. Nemmeno il genio di Alfred Hitchcock resistette alla tentazione di mettere in scena un covo di pirati nella brumosa Cornovaglia in La taverna della Giamaica, dove giganteggia lo stesso Charles Laughton che qualche anno dopo avrebbe prestato il corpo al feroce Capitan Kidd.

Quella dei pirati sul grande schermo è una storia lunga, ricca di cambiamenti e fluttuazioni, di mutamenti di gusto e inaspettate riscoperte. Da qualsiasi punto la si guardi, una storia spesso legata alla libertà e alla sovversione delle regole, in alcuni casi anche alla rivoluzione. Deve essere certamente un segno dei tempi che sia finita ad ispirare la più celebre attrazione del luna-park di Disneyland e da lì un franchise di enorme successo prodotto dalla major di Topolino.

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