Sono stato recentemente al Cairo per lavoro e non ho voluto perdere l’opportunità di comprendere più da vicino quanto avvenuto, solo pochi mesi fa, a piazza Tahrir, simbolo della rivolta, soprattutto giovanile, che ha portato alle dimissioni di Hosni Mubarak.

Rispetto a come ce l’hanno raccontata, non è stato il tam-tam in rete o sui social network a riempirla, in un crescendo di folla, dal 25 gennaio a metà febbraio scorsi, ma proprio l’infelice decisione del Governo di interrompere le comunicazioni al fine di controllare meglio la situazione: la gente, in cerca di informazioni diverse da quelle della Tv ufficiale, si è raccolta nella principale piazza “reale” della capitale proprio perché era stata chiusa quella “virtuale”.

Il fatto che altrove la comunicazione intermediata dalle tecnologie digitali venga temuta, non deve portare al falso convincimento che possano essere altrettanto temibili gli attivisti nostrani che si mobilitano soprattutto dietro le tastiere o si appassionano, ancor più passivamente, ai dibattiti Tv. La piazza virtuale può anche rappresentare, cinicamente, agli occhi di un accorto manipolatore, il miglior materasso su cui far scaricare la più sacrosanta indignazione civile: tanto, prima o poi, ci si stancherà.

Insomma, chi desiderasse davvero attivarsi per un cambiamento sociale e politico, o è capace di motivare gli altri ad alzarsi e ad andare a votare, alle elezioni così come ad un referendum dove si spende quel micro potere democratico di cui ciascuno di noi dispone, oppure è già sconfitto in partenza.

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