Gira in questi giorni su tutte le reti televisive uno spot pubblicitario su Lampedusa. Le immagini sono come le cartoline di una volta: rocce bianche a picco sul mare, insenature turchesi con trasparenze incantevoli, bordure fiorite di macchia mediterranea tendente al nordafricano, cieli tersi. Il commento della voce fuori campo sembra copiato tale e quale dai decrepiti documentari del dopoguerra: il mare è incontaminato, la natura selvaggia, i panorami mozzafiato, l’aria limpidissima, la temperatura mite, il sole garantito.

Ora, si capiscono i lampedusani così provati dagli eventi e dal destino di essere geograficamente all’incrocio di una faglia umana che scuote duecento anni di relativa stabilità. Avranno visto il documentario e avranno detto “speriamo bene”. Ma qualcuno lo avrà pure commissionato, valutato, pagato: e chi è questo genio? Il documentario così com’è, intervallando la realtà quotidiana di naufraghi, morti, sofferenti, dolenti, fa semplicemente ridere.

Ma ci voleva poi molto a produrre un documento dove si dicesse semplicemente la verità: guardate che questa è un’isola di eroi, di concittadini esemplari che resistono da anni, di gente che si è fatta a fettine per rendere meno penosa questa tappa obbligata di una migrazione terribile? Lampedusa deve rimanere nella memoria collettiva come lo Chemin des Dames o il Grappa, come Stalingrado o Guadalcanal, come Fort Alamo o Saratoga. Ma è possibile che dietro questo clamoroso errore pubblicitario e promozionale (soldi veramente buttati) ci sia qualche assessore dal cervello limitato o la ministra Brambilla. E, allora, questo blog è tempo perso.

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