Condensa trent’anni di storia francese – dal Fronte popolare al ’68 – chiuso in una balera parigina in Ballando Ballando, ottanta di quella italiana tra i corridoi di una casa romana nel sentito La famiglia, un’intera rivoluzione nel viaggio in carrozza del sottovalutato Il mondo nuovo. Da sempre, lo sguardo di Ettore Scola è dappresso al tempo e al suo scorrere: fotografa cambiamenti, illumina transizioni, analizza dinamiche sociali e mutamenti di costume. A volte in maniera ironica, altre comica, nostalgica, drammatica, grottesca o feroce.

Non è un segreto che la sua peculiarità d’autore sia quella di raccontare la grande storia attraverso squarci di quotidianità, microeventi, vicende intime e personali. E’ così che gli amori e le passioni politiche di Antonio, Gianni e Nicola nel capolavoro C’eravamo tanto amati diventano quelle di un’intera generazione. O che l’incontro dolente tra l’omosessuale destinato al confino e la casalinga rassegnata del magnifico Una giornata particolare riesca a mostrare perfettamente la follia di un fascismo che entra in scena attraverso la cronaca radiofonica dell’incontro tra Mussolini e Hitler.

Quaranta regie, la prima, Se permettete parliamo di donne è del ’64, e poco meno di novanta sceneggiature in curriculum. La carriera di questo grandissimo cineasta – festeggiata con uno speciale David di Donatello assegnato ieri dall’Accademia del Cinema Italiano – si conclude, a detta dell’interessato, col corale Gente di Roma (2003), film leggero che segna appunti, annota facce, si guarda intorno su un autobus in giro per la città. “Pedina il personaggio”, come insegnò Zavattini e mise in pratica De Sica, cui Scola dedica C’eravamo tanto amati.

Proprio dal fantasma neorealista deriva la vocazione all’indagine socio-politica della sua opera, scissa tra rigore morale e goliardia, tra analisi di costume e passione del racconto. Accomunato ai grandi autori della commedia all’italiana per cui scrisse copioni già da giovanissimo (spesso in coppia con Ruggero Maccari), Scola è in realtà un cineasta di transizione che appartiene sia alla generazione artistica di Monicelli, Risi e Comencini sia a quella successiva che arriva fino a Bertolucci e Bellocchio. Almeno anagraficamente è più vicino ai secondi che ai primi.

Forse ha preso il meglio di entrambe le correnti. Parlando della fine degli ideali nel funereo La terrazza, della ferocia degli italiani nei collettivi I nuovi mostri e Signori e signore, buonanotte, delle crepe della società del benessere in Dramma della gelosia: tutti i particolari in cronaca, del profondo sottoproletariato nel nerissimo Brutti, sporchi e cattivi. Tra i suoi lavori più ingiustamente dimenticati il raffinato Passione d’amore da Iginio Ugo Tarchetti e La più bella serata della mia vita da Friedrich Dürrenmatt.


Dalle rare interviste che concede emerge sempre un punto di vista netto, sottilmente ironico e d’invidiabile lucidità critica sulla società che viviamo: avrà anche smesso di fare cinema, ma non di tenere gli occhi ben aperti su quello che lo circonda. In occasione del David alla carriera, riferendosi al presidente della Repubblica Napolitano ha detto: “Essere vecchi in questo momento, in questo Paese significa rischiare di poter essere tristi, malinconici, per i troppi problemi e ‘macerie’. Ma ogni tanto c’è una voce isolata e unica che ci ridà speranza, fiducia e anche buon umore. Grazie Giorgio”.

Per gli ottant’anni che festeggerà il prossimo martedì, la Casa del Cinema di Roma gli dedica tre proiezioni in Sala Deluxe: La famiglia (ore 16.00), il cortometraggio 43-97 (ore 20.30) cui segue Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, che ha scritto insieme al regista e a Ruggero Maccari.

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