La notizia è rimbalzata dall’intelligence egiziana e ha colto di sorpresa anche alcuni tra i più attenti osservatori di cose mediorientali che pure seguivano con attenzione i colloqui, molto riservati, in corso tra Fatah e Hamas. Obiettivo, sbloccare lo stallo politico e la rivalità che hanno paralizzato le già molto fragili strutture istituzionali palestinesi. L’obiettivo sembra sia stato raggiunto ieri a tarda sera, quando dalle agenzie di stampa internazionali ribattevano un comunicato dell’intelligence egiziana che diceva: «Le consultazioni si sono concluse con un pieno intendimento su tutti i punti in discussione, compresa la formazione di un governo ad interim con alcuni compiti precisi e la data per le elezioni». Da Gaza, poco dopo, Taher al-Nono, uno dei portavoce di Hamas ha confermato all’agenzia Reuters: «Le due parti hanno firmato un accordo iniziale. Tutti i punti di divergenza sono stati appianati».

Una conferma molto scarna per quello che è a tutti gli effetti un passaggio essenziale e storico per i palestinesi. Hamas e Fatah erano divise – e spesso l’una contro l’altra armate, con decine di morti – dalle elezioni del 2006, vinte da Hamas e poi di fatto annullate a causa delle pressioni della comunità internazionale. Lo erano ancor di più dal 2007, quando Hamas, con un colpo di mano ha preso il controllo della Striscia di Gaza, spaccando l’unità amministrativa dei Territori Palestinesi, lasciando all’Autorità Nazionale Palestinese il governo della Cisgiordania. La composizione della frattura merita dunque una cerimonia della firma che si terrà al Cairo nei prossimi giorni, appena saranno anche resi noti i termini precisi dell’accordo, in particolare quali siano i compiti del nuovo governo ad interim e quando si potranno tenere le elezioni palestinesi.

Il presidente dell’Anp Mahmoud Abbas, a febbraio scorso, aveva indicato l’intenzione di chiamare i palestinesi al voto entro settembre. Quella data potrebbe essere stata confermata nell’accordo, anche se a febbraio Hamas aveva rifiutato, oppure slittare. Forse di un anno.

Cosa è cambiato nel frattempo? O meglio, perché proprio ora? I contatti, più o meno segreti, tra le due parti vanno avanti da tempo, con la mediazione egiziana che era stata affidata a Omar Suleiman, l’ex capo dell’intelligence che per alcuni giorni, due mesi fa, sembrava sul punto di succedere al presidente Hosni Mubarak cacciato dalle manifestazioni di piazza Tahrir. Suleiman ha mediato diversi accordi temporanei tra le due principali parti palestinesi, così come le tregue tra Hamas e Israele. Questo accordo è dunque il frutto anche dei suoi sforzi. Un frutto maturo? Sembrerebbe di sì, però almeno in parte per ragioni esterne al conflitto israelo-palestinese.

A settembre, in occasione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, l’Anp potrebbe presentare richiesta al Consiglio di Sicurezza dell’Onu per il riconoscimento dello Stato di Palestina quale nuovo membro delle Nazioni Unite. Secondo Abbas, ci sarebbero almeno 130 paesi pronti a riconoscere il nuovo stato. Un atto del genere, scriveva il quotidiano israeliano Haaretz il 20 aprile scorso, servirebbe a mettere sotto pressione il governo di Benyamin Netanyahu, che non sembra avere alcuna intenzione di riavviare il processo di pace, quantomeno non il processo di pace su cui si dice d’accordo il Quartetto (Usa, Ue, Onu, Russia).

C’è dell’altro. I rivolgimenti politici della primavera araba stanno facendo perdere al governo israeliano alcuni punti di riferimento, primo fra tutti l’Egitto e con il passare dei mesi e l’aumento delle proteste anche nella vicina Siria, il nervosismo è cresciuto pure a Tel Aviv e a Gerusalemme. Eppure, Netanyahu non si sgancia dal suo personaggio. Il primo commento, a caldo, alle notizie dell’accordo tra Fatah e Hamas è stato lapidario: «L’Anp deve decidere se fare la pace con Israele o con Hamas. Entrambe le cose non è possibile». Il primo ministro israeliano sembra non vedere che il rischio maggiore, a Gaza come in Cisgiordania, è che l’attuale dirigenza palestinese possa essere travolta dalle proteste. Una prova, molto moderata, è stata nelle manifestazioni del 15 marzo scorso, quando migliaia di persone, in grandissima parte giovani hanno manifestato a Ramallah e in altre città della Cisgiordania, come pure a Gaza per un «giorno dell’unità». Manifestazioni in parte spontanee e in parte sostenute dai due differenti «governi» palestinesi, ma comunque un segnale su quale sia l’umore della piazza e, appunto, dei giovani. Quelli che sono sempre stati in prima fila nelle manifestazioni e nelle rivolte contro l’occupazione militare israeliana, fanno capire che una nuova eventuale intifada (se ne vocifera sul web sotto varie forme, compreso un misterioso videomessaggio che indica come data il 15 maggio) potrebbe, per una volta, non essere rivolta soltanto contro i soldati israeliani ma anche contro le elite palestinesi, che pur senza uno stato vero e proprio, hanno però assunto molti dei difetti dei regimi arabi, dalla corruzione alle violazioni dei diritti umani.

Se questa consapevolezza può aver spinto i vertici di Fatah a cercare di chiudere il più rapidamente possibile un accordo con Hamas (potenzialmente favorito da eventuali manifestazioni di piazza contro il «governo» palestinese), nelle decisioni del movimento islamico di resistenza potrebbe aver pesato anche l’assassinio di Vittorio Arrigoni, con l’aumento, ormai evidente, della sfida salafita al controllo del territorio nella Striscia. Nelle ultime settimane, con il mondo concentrato sulle vicende libiche, nella Striscia c’è stata una mini escalation che ricorda da vicino – anche se in piccolo – quel micidiale gioco al rialzo tra razzi palestinesi e incursioni israeliane che ha portato a Piombo Fuso, l’attacco contro la Striscia alla fine del 2008. Un evento che se ripetuto oggi, con tutta la regione in subbuglio e nessun governo al sicuro, rischierebbe di far scendere sulla primavera araba una micidiale gelata di guerra.

di Enzo Mangini / Lettera 22

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