Janis Joyce, chi era costei? Un mix evocativo tra letteratura e musica ribelle, degna apertura da Fab Four del weekend. L’abile rilancio marketing della storica casa editrice Transeuropa pare abbia funzionato. A firma della signora Joyce nel gennaio scorso è uscito Seventy sex, il diario inventato di una fanciulla disinibita in un paese del veneto anni ’70: un concorso con cinquecento euro in palio per indovinare chi si riconosce dietro allo pseudonimo della scrittrice e diecimila copie del libro vendute in un amen. Dal 17 aprile scorso si sa che Janis Joyce è la cinquantaduenne Laura Bettanin, moglie dell’assessore Formento del comune di Schio. La matura signora passerà al Modo Infoshop di Bologna, venerdì 29 aprile alle 19 per presentare il suo romanzo. Da Pier Vittorio Tondelli, (Altri libertini) alla Joyce, passando per Melissa P., si vede come la pubblica morale non sia più quella di una volta. Divertiamoci gente, divertiamoci.

Domenica 1 maggio nel capanno degli attrezzi del Teatro delle Ariette a Castello di Serravalle in provincia di Bologna (via Rio Marzatore, 2781) suona Gianmaria Testa. Il concerto/racconto s’intitola Io e la canzone popolare. Quindi poche hit del nostro, ma molti motivi che hanno fatto la storia della musica popolare italiana. Il cantautore cuneese, ex ferroviere, in attività per mezza Europa fin dal 1994 (è praticamente sempre a suonare in localini svizzeri, di Amsterdam e Parigi), è stato paragonato più volte a Paolo Conte. Ecco, appena ne risento un altro che afferma “Testa somiglia a Paolo Conte” gli tiro un ceffone. Testa è superiore a Conte prima di tutto per coraggio ed indipendenza produttiva e distributiva. Successivamente non è mai stato scosso come una bottiglia di acqua gasata come in molti hanno fatto con il consapevolissimo avvocato di Asti. Così dopo quasi vent’anni di carriera internazionale Testa è un sincero, fallibile ed immenso compositore e non di certo un fenomeno da baraccone. Ora potete picchiare anche me.

“Vuoi sapere cos’è una catena di montaggio? Immagina di salire al contrario su una scala mobile, di rimanere in equilibrio su quattro, cinque gradini senza essere risucchiato, e contemporaneamente lavorare per sette ore e mezzo”. Metafora chiara e ricorrente nei discorsi degli operai di Pomigliano d’Arco, durante i settantacinque minuti di RCL – Ridotte Capacità lavorative, diretto da Massimiliano Carboni, recuperabile domenica 1 maggio alla sala Truffaut di Modena (spettacoli alle 16, 17e30, 19, 20e30). Il folle documentario ha per protagonista un esuberante Paolo Rossi: ombrelletto orientaleggiante come parasole, copione stropicciato infilato in tasca, sudore a litri, il “maestro” dirige le operazioni dei sopralluoghi in strada a Pomigliano per capire che sta succedendo alla classe operaia e ai suoi padroni. Parola d’ordine: surrealismo civile. Imperdibile.

Giornatona affollata quella del 1 maggio emiliano-romagnolo. Però chi si trova dalle parti di Santarcangelo di Romagna sul lungofiume Marecchia attorno alle 18, presso il campo Mutoid Waste Company, trova ad aspettarlo Enrico Farnedi e il suo ukulele. No, non c’entrano nulla Marylin e il chitarrino hawaiano strimpellato in A qualcuno piace caldo. Farnedi è un polistrumentista della madonna, che ha suonato con Castellina-Pasi e i Quintorigo. Poi all’improvviso si è dato al concerto solista sfornando un album pazzo e malinconico come Ho lasciato tutto acceso, non più di sei mesi fa. Ascoltate La casa molto Mariachi, vibrato vocale baglionesco, Endrigo che occhieggia un po’ incazzato, l’ukulele che dà il tempo e all’improvviso cori, trombette e maracas: “non si poteva andare a letto in quella casa non c’era il tetto, non si poteva fare pipì perché non c’era il vasino lì”.

E se ve lo siete perso…

Al cinema Lumiere, lunedì 2 maggio alle 22e15, la replica del documentario di Michele Mellara e Alessandro Rossi, La febbre del fare che durante lo scorso inverno ha creato lunghe file fuori dal Lumiere. La politica a Bologna dal 1945 al 1980, ovvero il modello dell’amministrazione PCI da esportare in tutta Italia. Stralci di un’epoca che a vederla oggi sembra fantascienza civica e morale (l’ex assessora comunale che andava in visita negli asili scandinavi a sue spese), per un documentario che pulsa grazie ad un vivo ed intelligente approccio alla materia selezionata, come anche (e i due autori mi scuseranno) un filo di mai fuori moda nostalgia del passato.

Articolo Precedente

Capossela, appuntamento clou

next
Articolo Successivo

Il cinema trema (e non racconta più il lavoro)

next