E’ da poco uscito per i tipi di Einaudi, “La vita accanto”, il bel romanzo d’esordio di Mariapia Veladiano. Il romanzo parte da una premessa interessante che, in questi tempi di velinismo imperante, sembra quanto mai attuale: raccontare la vita di una donna brutta. Non deforme, non portatrice di handicap, ma semplicemente brutta. Di una bruttezza che, come il suo opposto, appare oggettiva e non si può negare. La domanda che si agita tra le pagine è allora: che significa portarsela addosso? Vivere dentro questa bruttezza ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Come se si indossasse una maschera circense o, al contrario, un burka dell’invisibilità.

Nella premessa sta il maggior valore del libro. Nell’intuizione, lucida e spietata, che il mondo che condividiamo non è lo stesso per tutti. Ma è come un’autostrada, con le automobili che viaggiano a velocità diverse, a seconda della corsia riservata: quella riservata ai belli, quella riservata ai brutti, quella riservata ai sani, quella riservata ai malati, quella riservata alle donne, quella riservata agli uomini, quella riservata agli eterosessuali, quella riservata agli omosessuali, quella riservata al Nord, quella riservata al Sud. Ecc, ecc. Il tema iniziale si dilata in una pletora di interpretazioni possibili, assurgendo a un’universalità che gli spetta di diritto, riattivando in noi un archetipo fondamentale: quello dell’Ombra, dell’Altro, del Diverso.

Tuttavia, proprio tale densità tematica, non riesce a incarnarsi appieno nella storia raccontata. Qualcosa, man mano che le pagine si assottigliano, viene lasciato fuori. E il romanzo devia, verso la ricerca di un riscatto, di un possibile lieto fine. La protagonista, allora, non può essere solo brutta, ma sarà dotata di un talento pianistico fuori del comune. La natura, che le ha fatto un torto in prima istanza, è chiamata a rifonderla con un dono di uguale peso. Un talento musicale che le permetterà di ritagliarsi un posto privilegiato nel mondo, di svolgere un lavoro al riparo dal contatto diretto con gli altri (autrice di colonne sonore), di crearsi infine una sorta di nido – una comune al femminile – fatta di affetti e solidarietà in cui spendere serena (se non felice) il resto della vita.

Il romanzo della Veladiano, che per padronanza della lingua e maturità compositiva si pone già come una futura protagonista delle lettere italiane, diventa così una sorta di favola, di malinconica parabola sospesa in un tempo mai veramente reale. E questo, congedato il libro, lascia un retrogusto amaro. Perché ci si chiede, quasi con una punta di rabbia, non avere il coraggio di affondare il coltello nella carne viva? Perché non raccontare la storia di una donna brutta, sì, ma brutta e basta. Una donna che debba affrontare nuda, senza la corazza di un talento che la rende comunque unica e speciale, la realtà della sua condizione. Perché cercare a tutti i costi una possibile redenzione? Che suona come parziale omologazione o normalizzazione del diverso? La letteratura, che è la patria degli esuli per eccellenza, non dovrebbe, invece, prendersi il peso, sulle sue spalle, proprio di ciò che non può essere redento? Di ciò che non può essere curato, reintegrato, allineato. Di ciò che si rifiuta di diventare regola, o brutta copia di una regola, e preferisce piuttosto morire come un’eccezione.

Al di là di queste riflessioni, che possono o meno trovare spazio nella mente di un lettore, “La vita accanto” resta un bel romanzo che accende una luce soffusa su vite femminili borderline. Vite che non appaiono ma che nondimeno esistono. Vite che rivendicano una loro dignità e bellezza. Vite che elargiscono il contributo irrinunciabile della diversità. E che continuano, tenacemente, a fiorire anche all’ombra di velismi vari e Bunga Bunga.

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