Di fronte all’escalation della repressione in Siria, si pone lo stesso interrogativo che si è posto per l’Egitto sollevato contro Hosni Mubarak e per la Libia, contesa tra Gheddafi e i ribelli. Ovvero: sostenere la ribellione? Fino a che punto?
Quando si arriva a questa domanda, in genere, è già tardi. Vuol dire che una parte della popolazione sottoposta a un certo regime ha superato la soglia della paura: non bastano i cecchini che sparano dai tetti, né i carri armati inviati a Deraa, nel sud della Siria, per fermare la protesta. Il numero delle vittime sale esponenzialmente: i diciotto morti di lunedì a Deraa si aggiungo a decine di altri e portano il bilancio, sempre provvisorio, ben oltre il centinaio di vittime. Secondo alcune organizzazioni per la difesa dei diritti umani, inoltre, ci sarebbero almeno 200 persone scomparse, vittime di arresti sommari seguiti alle perquisizioni casa per casa messe in atto dalle forze militari siriane nel tentativo di fermare le proteste. Cioè di far risalire la soglia della paura, quella che congela il dissenso nel borbottio della strada o delle case, senza l’atto pubblico della protesta.
Più di uno, nei governi occidentali, preferirebbe che la repressione siriana alla fine riuscisse. E infatti le proteste finora sono state relativamente blande, con una leggera impennata di dignità solo negli ultimi giorni, quando la Casa Bianca ha iniziato a parlare di sanzioni contro gli esponenti di spicco del governo del presidente Bashar Assad.

L’argomento di chi si chiede se sia il caso di appoggiare i ribelli è sempre lo stesso: non sappiamo cosa verrà o potrebbe venire dopo Assad. E’ un argomento ragionevole, in politica estera, ma che conduce diretti all’immobilismo. Infatti, solo dopo decenni di sostegno incondizionato, i governi occidentali si sono resi conto che il prezzo da pagare ai regimi mediorientali era troppo alto, in termini di violazioni dei diritti umani tollerate e di rabbia popolare accumulata. Fallito con Mubarak, Ben Ali e Gheddafi, l’argomento torna nel caso della Siria. Si dice, con un certo margine di ragione, che le rivolte siriane non hanno ancora l’ampiezza e lo spessore di quelle maghrebine. Ma si dice, soprattutto, che se salta la Siria rischia di collassare l’intero Medio Oriente.
Come se il Medio Oriente non fosse già entrato in una fase di profonda riorganizzazione geopolitica e soprattutto geosociale. Soprattutto, come se l’ordine esistente del Medio Oriente – in fondo l’ordine più conveniente per l’Occidente – fosse l’unico possibile. La lezione, temporanea e precaria, che finora si può trarre dalle rivolte della primavera araba è invece che i cittadini tunisini, egiziani, libici, siriani, yemeniti e via dicendo vogliono innanzi tutto essere liberi di scegliere come essere governati e da chi. Per farlo, sono pronti a pagare, e stanno pagando, un altissimo prezzo di sangue e sofferenze. Prescindere da questo punto, come fanno alcuni governi, compreso quello italiano, vuol dire continuare a ragionare solo in termini di «scacchiere». Nel Risiko, ci sono i carri armati, ma mancano i popoli.
di Enzo Mangini / lettera 22

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