Un anonimo motociclista, poco dopo l’alba, ha aperto il fuoco contro il presidio dei manifestanti antigovernativi nella città costiera di al-Hudaydah, in Yemen.

I manifestanti si stavano preparando alla preghiera dell’alba, la prima delle cinque canoniche per i musulmani osservanti. Secondo testimonianze raccolte dalle agenzie di stampa internazionali, il motociclista ha sparato nel mucchio, tra le persone accampate da giorni per manifestare la propria opposizione al presidente Ali Abdullah Saleh, al potere da oltre trent’anni. Il bilancio dell’attacco è di un morto e almeno otto feriti.

Quanto accaduto può essere considerato la risposta più immediata all’impasse politica maturata durante la riunione di ieri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu sulla situazione yemenita. È la seconda crisi della primavera araba che arriva fino al massimo consesso internazionale, dopo quella libica.

La riunione del Consiglio di Sicurezza si è conclusa con una fumata mezza nera: parole di condanna per la repressione e l’invito alle parti in conflitto a “usare moderazione” per “cessare le violenze”, che dall’inizio delle proteste contro Saleh, tre mesi fa, hanno causato più di 120 morti, di cui almeno 26 bambini e adolescenti, secondo l’Unicef.

In vista della riunione dell’organismo delle Nazioni Unite, anche ieri nella capitale yemenita Sana’a si erano verificati scontri tra le forze governative e i manifestanti, appoggiati da una parte dell’esercito. Altri quattro morti e una decina di feriti da aggiungere al conto del presidente che governa lo Yemen dal 1978 e che non sembra minimamente intenzionato a mollare, nonostante il crescente isolamento internazionale.

All’Onu, secondo quanto riferito dall’ambasciatrice statunitense Susan Rice in una conferenza stampa, molti ambasciatori dei paesi del Consiglio non avevano ricevuto indicazioni precise dalle proprie capitali. Così, non è stato possibile approvare la ben più dura mozione di condanna presentata da Germania e Libano. Il paese dei cedri occupa un seggio tra quelli a rotazione del Consiglio e già nel caso della Libia ha promosso la mozione che ha poi portato alla Risoluzione che ha aperto il campo all’intervento militare internazionale.

Potrebbe ripetersi lo stesso copione nel caso del Yemen? Se da un lato non ci sono interessi petroliferi diretti in gioco, il paese arabo controlla comunque l’ingresso al Mar Rosso, uno dei «colli di bottiglia» delle rotte marittime commerciali mondiali. Per questo, secondo voci diplomatiche, Russia e Cina (due tra i paesi ancora indecisi sul da farsi) starebbero aspettando per capire se i tentativi di mediazione tra ribelli e governativi avviati dall’Arabia Saudita e dai paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc) possano avere successo.

Le posizioni rimangono distanti. I ribelli chiedono le dimissioni immediate di Saleh, la fine della repressione e l’avvio di una transizione verso un sistema politico multipartitico e più democratico. Saleh invece non vuole lasciare il potere e rinunciare all’architettura che ha costruito per sé e per la sua famiglia (uno dei figli comanda la Guardia repubblicana, i migliori reparti delle forze armate yemenite). La proposta su cui il Gcc sta lavorando, dopo un incontro con una delegazione governativa è che Saleh passi la mano al suo vice, senza però specificare quale possa essere la sorte del presidente che i ribelli vorrebbero fuori dal Paese al più presto.

Lo stallo armato è difficile da sbloccare, nessuno dei due campi sembra avere in mano una carta decisiva. Ci si avvia così verso un altro venerdì di preghiere e proteste. Forse, un altro venerdì di sangue.

di Enzo Mangimi

In collaborazione con Lettera 22

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