Manifestante anti-nucleare a Tokyo

A più di un mese dal terremoto e dal conseguente tsunami che hanno provocato la crisi – non ancora rientrata – alla centrale nucleare di Fukushima, gli attori nipponici della gestione del disastro non riescono a mettersi d’accordo. Neanche con sé stessi e persino nello stesso giorno. Il 12 aprile, ad esempio, il governo giapponese innalzava la valutazione di gravità dell’incidente nucleare al livello 7, lo stesso del disastro ucraino di Chernobyl. Secondo il primo ministro nipponico, invece, Naoto Kan, “la situazione a Fukushima si sta stabilizzando passo dopo passo, le radiazioni stanno diminuendo”.  “La quantità complessiva di materiale radioattivo liberato nell’incidente è pari al 10% di quello rilasciato nel caso di Chernobyl”, specificava l’Associazione giapponese per la sicurezza nucleare e industriale (Nisa). Ma nello stesso giorno i timori della Tepco – azienda che gestisce la centrale – andavano in direzione opposta: ”La perdita radioattiva non si è ancora arrestata completamente e la nostra preoccupazione è che possa anche superare Chernobyl”.

Il futuro della centrale: chiuderà, forse no. Ristabilita entro 9 mesi, se solo ci si potesse entrare. Solo ieri la Tepco presentava il suo piano per la stabilizzazione della centrale nucleare. Tre mesi per fermare del tutto la perdita di radioattività e da sei a nove mesi per il recupero totale dei detriti e la copertura degli edifici che ospitano i reattori, danneggiati dalle esplosioni. Ma oggi l’Agenzia per la sicurezza atomica nipponica frena, dopo aver riscontrato livelli di radioattività ancora più alti dei precedenti. “In questa situazione è molto difficile per i tecnici della centrale poter svolgere il proprio lavoro dall’interno”, ha spiegato il portavoce dell’Agenzia, Hidehiko Nishiyama. E altrettanto incerto è il futuro dell’intero impianto nipponico, compreso quello dei reattori 5 e 6, che non hanno subito danni. Dal 20 marzo – e più volte nelle settimane successive – il premier giapponese e il capo gabinetto Yukio Edano si erano detti sicuri della chiusura di Fukushima, una volta superata la crisi. “Non ci sono altre soluzioni – ha dichiarato Kan – E’ chiaro, guardando alle circostanze, che questa è la percezione” confermava Edano. Ma pochi giorni fa, la Nisa torna sui passi del governo, dichiarando che l’eventuale smantellamento non è certo, ma sarà “da decidere dopo aver ascoltato i residenti dell’area”.

Le analisi sulle sostanze radioattive: questione di zeri e di chilometri. Impossibile vivere a Fukushima, “per il momento”. “Si potrebbe trattare di un periodo tra i 10 e i 20 anni”, ha spiegato pochi giorni fa Kenichi Matsumoto, uno dei collaboratori del premier nipponico. Eppure, dai dati diffusi dalle autorità giapponesi, è difficile capire quale sia la reale contaminazione della regione. Il 25 marzo il governo nipponico invitava alla ”evacuazione volontaria” fino a 30 km dalla centrale nucleare, ”per migliorare la qualità della vita quotidiana e non legata a motivi di sicurezza”. Qualche settimana dopo, a un mese esatto dal disastro, per la stessa zona si è invece provveduto all’evacuazione sistematica. Esclusi da questo provvedimento, gli abitanti del villaggio di Itate – distante 40 chilometri dal’impianto – nonostante l’Agenzia atomica internazionale avesse ammonito il governo: a Itale le radiazioni superano i limiti di guardia. E i dati non aiutano a fare chiarezza. Il 27 marzo scorso la Tepco annuncia livelli di radioattività al reattore n. 2 di Fukushima 10 milioni di volte maggiori alla norma. E’ allarme. Ma l’indomani la società si corregge: sarebbero ‘solo’ 100mila volte. E l’Agenzia giapponese per la sicurezza nucleare non è da meno: da un giorno all’altro, il livello di superamento della norma della radioattività in mare di fronte alla centrale nucleare aumenta di 600 volte.

Il cibo è contaminato. Ma solo un po’. Riso al curry con carote, broccoli e patate. Tutte coltivate a Fukushima. Intorno al tavolo, il ministro degli Esteri nipponico, Takeaki Matsumoto, e una decina di altri esponenti politici giapponesi. Deputati che comprano asparagi e pomodori della zona dell’impianto. Yukio Edano, portavoce del governo, che mangia una fragola in un mercato della provincia della centrale. Campagne d’immagine e accorati appelli per evitare che i cittadini giapponesi boicottino i prodotti alimentari della regione di Fukushima per timore delle radiazioni. Eppure, appena quattro giorni fa, era stato proprio il ministero della Sanità nipponico a rilanciare l’allarme: undici diversi tipi di verdure e pescato – provenienti dalla zona della centrale – superano da sei a 25 volte la soglia massima di radioattività stabilita per legge. Il richiamo non arriva inatteso. Una settimana dopo il disastro, le analisi non lasciavano dubbi: latte, broccoli, spinaci superavano i limiti legali. Tanto che lo stesso premier Kan era stato costretto a vietare la vendita di diversi alimenti. Ancora l’8 aprile, l’Unione Europea decideva di rafforzare i controlli sulle importazioni dal Giappone, dopo che numerosi paesi – tra questi, Russia, Cina e India – avevano già predisposto il blocco. Lo stesso giorno però il governo nipponico decide di invertire la rotta e allentare le restrizioni alla vendita di prodotti alimentari coltivati in alcune aree intorno alla centrale nucleare di Fukushima.

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