Appena sveglio, aprendo la mia pagina Facebook, ho trovato decine di post e link di miei amici che annunciavano la morte di Vittorio Arrigoni, raccontavano la sua esecuzione e descrivevano questo uomo che da tre anni aveva deciso di vivere a Gaza e rimanere in quell’inferno, per usare le sue parole.

Leggendo la sua storia mi sono venute in mente altre vicende simili, dal rapimento delle due Simone alla tragica fine di Enzo Baldoni, ai tanti attivisti, volontari, medici, operatori di organizzazioni governative e non governative, giornalisti che sono morti sul campo, in paesi instabili, mentre svolgevano il lavoro che avevano scelto, consci dei rischi che potevano correre.

Personalmente, non penso che il coraggio, seppure molto importante, sia il principale aspetto su cui soffermarsi quando si analizzano queste scelte di vita; mi ha colpito molto quello che ha scritto Giulio Cavalli sul suo blog, dove definisce Vittorio Arrigoni un apolide che ha trovato il posto dove stare’.

In un tempo in cui è egemonica una narrativa che tende a ridurre la nuova emigrazione italiana al brain drain, ai cervelli in fuga, ai professionisti iper-mobili che si spostano da un paese all’altro alla ricerca delle opportunità lavorative migliori, è importante ricordare che c’è anche altro. Ci sono tante storie di persone che semplicemente cercano un posto dove stare, dove potere esprimere completamente se stessi, e per starci sono disposti a tutto, dal fare i lavori più umili al rischiare la vita ogni giorno. Persone che, parafrasando quello che scrive ancora Giulio Cavalli a proposito di Arrigoni, partono per “la volontà del sentirsi coerente con se stessi e il professionismo di chi professa i propri valori in quello che si ritrova a fare ogni giorno”. Che non sentono il bisogno di scrivere sui forum per gli italiani all’estero, che non mettono la loro identità nazionale tra le fonti primarie delle loro scelte, che appunto sono “apolidi” e partecipano alla vita sociale e politica del paese in cui si trovano solo perché “sentono” che devono farlo, seguendo le loro aspirazioni e i loro ideali.

Molte scelte di vita sarebbero incomprensibili se si analizzassero solo in base alla loro razionalità: ciò vale per il ventenne che vive per anni in un basement a Londra condividendo un flat fatiscente con una decina di coinquilini passando da un ristorante all’altro lavorando come cameriere in nero, all’attivista che preferisce rimanere all’inferno, “nonostante offerte allettanti come una tournee in giro per l’Italia con Noam Chomsky”.

In un periodo in cui per noi italiani all’estero la domanda ricorrente quando si chiacchiera con conoscenti di altri paesi è “what about Berlusconi”?, spesso seguita dall’espressione bunga bunga pronunciata con un sorrisetto sarcastico, coloro che offrono l’immagine migliore dell’Italia, i più grandi patrioti mi verrebbe da dire, sono proprio questi apolidi che, in qualunque campo, si impegnano coerentemente ai propri valori e ideali, valori e ideali che non hanno nazionalità.

di Giuseppe Scotto, italiano a Brighton (Gran Bretagna)

Articolo Precedente

La poesia della panchina

next
Articolo Successivo

Da Trieste alle colline di Hollywood disegnando creature mostruose

next