Primi risultati sulle bombe alla procura generale di Reggio Calabria e sul bazooka per Pignatone.

Grazie alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonino Lo Giudice, stamattina la squadra Mobile di Reggio Calabria e il Comando provinciale dei carabinieri hanno eseguito quattro ordinanze di custodia cautelare.

Manette ai polsi per il boss Luciano Lo Giudice, per il fratello pentito Nino e per Antonio Cortese, tutti già in carcere da mesi. Su richiesta del procuratore di Catanzaro Vincenzo Antonio Lombardo e del sostituto Salvatore Curcio, il gip ha disposto l’arresto anche di Vincenzo Puntorieri che gli inquirenti definiscono un giovane vicino a Cortese e che avrebbe aiutato quest’ultimo durante la fase esecutiva degli attentati.

Gli inquirenti stanno cercando di fare luce su quella che è stata definita la “strategia della tensione” messa in atto dalle cosche reggine.

Il 3 gennaio

Un risveglio amaro quello di Reggio. Il 3 gennaio, un boato ha stordito il centro storico gettando la città in un baratro sconosciuto ai più giovani che non hanno vissuto la seconda metà degli anni ottanta quando le cosche facevano sentire la loro forza a suon di omicidi e autobombe.

Due professionisti hanno piazzato un ordigno davanti all’ingresso della Procura generale.

Una bombola a gas, collegata ad una consistente quantità di tritolo, ha danneggiato il portone lanciando un segnale inquietante alla magistratura. La ‘ndrangheta ha dichiarato guerra allo Stato. E lo ha fatto con spavalderia, incurante delle telecamere a circuito chiuso che hanno ripreso la scena.

Un minuto e mezzo è stato il tempo necessario per collocare l’ordigno e farlo esplodere. Pochi secondi per allontanarsi da via Cimino a bordo di uno scooter.

26 agosto

Hanno atteso che il procuratore generale Salvatore Di Landro rientrasse a casa in via Rosselli, nel centro storico. Lo stile non cambia. Un ordigno confezionato con tritolo ad altissimo potenziale collegato con una lunga miccia.

Qualche secondo e l’esplosione, poco prima delle due di notte, ha distrutto il portone dello stabile che, al secondo piano, ospita l’abitazione del magistrato reggino.

A distanza di otto mesi dalla bomba alla Procura generale, la ‘ndrangheta torna ad alzare il tiro. E stavolta lo fa colpendo personalmente il vertice dell’ufficio requirente di via Cimino.

Un attacco allo Stato che conferma la strategia della tensione attuata dalle famiglie mafiose reggine.

È stato solo un caso non ci siano state vittime. Un boato nella notte ha svegliato il quartiere. Di Landro era ancora sveglio. Pianerottolo distrutto e schegge dovunque conficcate nelle macchine, nelle pareti dell’ingresso, nella porta della ascensore.

La città è stordita. Con quest’esplosione Reggio ha toccato il fondo. Si percepisce un alone torbido che sa di vecchio. Si è tornati indietro di oltre 20 anni quando la seconda guerra di mafia ha lasciato a terra quasi mille morti ammazzati.

All’epoca era in atto uno scontro tra il cartello dei condelliani e quello guidato dalla cosca De Stefano. Oggi, la “guerra” si combatte tra la magistratura reggina e una ‘ndrangheta che va a braccetto con una zona grigia composta da pezzi infedeli dello Stato, politici corrotti, servizi deviati e imprenditori collusi.

Il 5 ottobre

«Possiamo colpire quando vogliamo. Andate di fronte al Tribunale, nella traversa che porta a San Giorgio. C’è un bazooka per il procuratore Pignatone».

Era questo il messaggio della ‘ndrangheta il 5 ottobre dello scorso anno. Un messaggio accompagnato da un bazooka come ultimo “avviso” alla magistratura reggina già vittima, nel 2010, di due gravissimi attentati.

A Reggio Calabria sono l’una del mattino quando alla sala operativa della questura arriva una telefonata anonima. Da una cabina pubblica di via Cardinale Portanova qualcuno compone il 113 e annuncia un imminente attentato al procuratore capo della città dello Stretto.

Pochi secondi e l’ambasciatore del messaggio riattacca la cornetta dopo aver annunciato un attentato al procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone.

Sul punto indicato convergono le volanti e gli agenti della Mobile. Ancora pochi minuti e a terra, gli uomini di Renato Cortese trovano un bazooka abbandonato di lato a un materasso.

Scattano i primi controlli. Perquisizioni a tappeto nella case dei pregiudicati della zona. È stata sequestrata anche la cabina dalla quale è partita la telefonata anonima nella speranza di rinvenire le impronte digitali di chi ha consentito alla polizia di rinvenire l’RBR M80, di produzione jugoslava. In sostanza un lanciarazzi monouso capace di distruggere qualsiasi auto blindata.

Un’arma da guerra già utilizzata e, proprio per questo, inoffensiva dal punto di vista del suo funzionamento.

Utile, però, a lanciare un messaggio di morte, per alimentare i veleni e lo stato di tensione che si respira a Reggio Calabria. Il governo manda l’esercito. Il palazzo di giustizia è militarizzato.

Il pentito

A pochi giorni dal ritrovamento del bazooka, viene arrestato il boss Nino Lo Giudice. Si pente. Inizia a fare i nomi e si autoaccusa di essere il regista della “strategia della tensione”.

Ancora poche settimane e la squadra Mobile arresta Antonio Cortese, l’uomo della cosca che avrebbe piazzato l’arma da guerra gli ordigni alla procura generale e a casa del magistrato di Landro. Proprio quest’ultimo, appresa la notizia degli arresti di stamattina ha commentato così: “Sono i nomi che già sapevamo. Complimenti alle forze di polizia, al questore e ai colleghi di Catanzaro. Staremo a vedere, leggeremo il provvedimento per capirne di più”.

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