Si stringe la morsa della Cina sul popolo tibetano dopo le dimissioni del Dalai Lama Tenzin Gyatso come loro capo politico.

Per quelli che vivono nella Regione Autonoma del Tibet, che è parte della Cina, non si prospetta un futuro migliore di quello odierno. Niente autonomia e niente indipendenza. Niente diritti, la loro lingua è stata tolta dalle scuole e la loro cultura viene sempre più sradicata. Ma la sorte dei tibetani in esilio in Nepal non è certo migliore. Circa 3000 tibetani fuggono ogni anno dalla provincia cinese. Di questi, circa 20.000 risiedono stabilmente in comunità sparse nel paese himalayano. Loro e i loro figli nati in Nepal vivono in una specie di limbo legale e non hanno lo status di profughi, benché a tutti gli effetti lo siano. Secondo accordi internazionali dovrebbero avere la nazionalità nepalese: eppure sono senza nazionalità. Non possono quindi andarsene e, se lo fanno, non possono essere riammessi. Dopo la rivolta di Lhasa del 2008, i nuovi arrivati ricevono continue minacce di essere rimandati indietro e gli vengono negati i diritti più elementari, a cominciare dallo status ufficiale di profugo o dei diritti di cui godono i cittadini nepalesi.

Da venerdì scorso i tibetani in esilio in Nepal stanno, se possibile, anche peggio. Si è conclusa infatti a Kathmandu la visita ufficiale del generale Chen Bingde, membro della Commissione Centrale Militare della Repubblica Popolare Cinese e capo della delegazione dell’Esercito di Liberazione, al generale Chhatra Man Singh Gurung, capo di stato maggiore dell’esercito del Nepal.

Gurung ha espresso il suo apprezzamento per la visita del generale cinese dicendo che per decenni, specie durante la guerra civile che ha infiammato il paese dal 1996 all’aprile 2006 e ha portato i maoisti a fare parte del governo, la Cina e il Nepal hanno goduto di uno sviluppo delle relazioni e degli scambi a livello militare senza intoppi. Ha poi unto le ruote che più interessano alla Cina e il vero motivo della visita di Bingde: la questione tibetana, quella che più rischia di intaccare la credibilità internazionale dello “sviluppo armonioso” della grande nazione, una vera e propria pentola a pressione politica che potrebbe dare la stura a tutta una serie di rivendicazioni da parte della società civile cinese.

Il generale nepalese ha ringraziato Bingde per il trattamento alla pari del Nepal e per la sincera assistenza e si è dichiarato “compiaciuto della prosperità (della Cina) e del suo sviluppo pacifico”. Si è detto anche favorevole a compiere uno sforzo comune con la controparte cinese per approfondire le relazioni di amicizia fra i due eserciti. Ricordiamo che negli anni di guerra civile i maoisti nepalesi si sono sempre dichiarati sulle stesse posizioni di Mao Zedong, anche se di fatto la Cina non è mai intervenuta nella lotta di liberazione, almeno ufficialmente. Anzi, in più di un’occasione ha preso le distanze dalla rivolta, sfociata nella guerra che ha causato oltre 16.000 morti in meno di 10 anni.

Sempre nell’ambito dell’approfondimento delle buone relazioni fra Cina e Nepal, il generale Gurung ha poi assicurato che il governo nepalese sosterrà sempre fermamente “la politica dell’unica Cina” e ha rinnovato il suo impegno a reprimere i separatisti tibetani nel paese. Quelli, cioè, che lottano perché il Tibet riacquisti la sua completa indipendenza. Il Nepal, ha continuato, non permetterà che sul suo territorio qualcuno compia azioni che possono portare alla divisione del territorio cinese. Il Tibet, infatti, è considerato dalla Cina parte integrante del suo territorio e non stato invaso e annesso.

Il generale cinese Chen Bingde ha detto che l’amicizia sino-nepalese ha resistito al test dei cambiamenti della situazione internazionale e ai cambiamenti interni nei rispettivi paesi, diventando così una ricchezza comune ai due popoli. E ha insistito sulla sicurezza regionale, dicendo che le buone relazioni assicurano stabilità e sicurezza a tutta la regione.

Il Nepal è di vitale importanza per la Cina, nonostante le sue condizioni economiche disastrose e le sue condizioni politiche incerte – senza una costituzione permanente e con un capo di governo che è stato nominato nel febbraio 2011 dopo sette mesi di intervallo senza primo ministro – per la sua posizione geopolitica strategica. La Repubblica Democratica Federale del Nepal confina a settentrione per il lato lungo del suo territorio con la Cina e a est, a ovest e lungo tutto il bordo meridionale con l’India. Si trova quindi a essere un vero e proprio stato cuscinetto stretto fra i due giganti e infatti la sua aspirazione dichiarata, anche se per ora remota, è quella di diventare “la Svizzera dell’Asia”, uno stato molto prospero e politicamente neutrale.

La Cina ha approfondito i suoi legami con gli altri vicini dell’India, cioè lo Sri Lanka e il Bangladesh, cominciando a costruire grandi progetti di infrastrutture, oltre a mantenere gli storici legami con il Pakistan. Questo ha allarmato New Delhi, che vede allargarsi e consolidarsi la sfera di influenza della Cina nell’Asia meridionale. Ma nonostante questo rafforzamento nella politica estera regionale, la paura della Cina è che il nuovo capo del governo, che verrà eletto dopo le dimissioni di Tenzin Gyatso, che il 10 marzo ha rinunciato alla carica di capo di stato del governo tibetano in esilio, non persegua una politica di pace, di dialogo, di persuasione diplomatica e di azione morale come il suo predecessore. Il XIV Dalai Lama non lottava per l’indipendenza ma propugnava la strada dell’autonomia e dell’autodeterminazione negli affari interni in seno Cina, la cosiddetta “via di mezzo”, lasciando la difesa e gli affari esteri alla gestione cinese. Ma dopo la repressione della rivolta di Lhasa del 2008 tra i profughi tibetani sono sempre più numerose le voci che criticano la politica del Dalai Lama dimissionario, che nel corso di 60 anni di annessione del Tibet non ha portato ad alcun sostanziale risultato.

Il settantenne Chen Bingde, che ha guidato una delegazione di 15 persone incluso Yang Jinshan, capo del Comando Militare del Tibet, capo cioè della sicurezza, ha avuto colloqui con il presidente del Nepal Ram Baran Yadav, con il primo ministro Jhalanath Khanal e con il ministro della difesa Bishnu Paudel. Ha dichiarato che lo scopo della sua visita è solo quello di “rinforzare l’amicizia e la cooperazione fra Cina e Nepal”. “Questa cooperazione” ha continuato “non giova solo ai nostri paesi ma anche alla pace nel mondo e nella regione dell’Asia del Pacifico.”

Il risultato di questo incontro basato sui buoni propositi di amicizia e di cooperazione fra i due paesi giovevoli a tutto il mondo è stato essenzialmente la reiterata assicurazione che il Nepal avrebbe fatto di tutto per aiutare la politica cinese di repressione dei tibetani e l’annuncio di due accordi economici. In cambio della lealtà nella questione tibetana, l’esercitò del Nepal riceverà 1,4 miliardi di rupie, circa 19 milioni di dollari, per lo sviluppo delle infrastrutture.

Quella di Chen Bingde è stata la prima visita ufficiale di una delegazione militare cinese nello stato himalayano negli ultimi dieci anni. Dal 25 marzo, quando il generale Chen è ripartito per Pechino, l’esercito nepalese è un po’ più forte e strutturato, e i tibetani in esilio saranno ancora più repressi e in pericolo. Ci si chiede se la repressione di un popolo che si è già sollevato più volte sia davvero il mezzo per rafforzare la pace e la sicurezza regionale.

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